La Legge di Bilancio 2020, approvata il 24 dicembre scorso ed entrata in vigore il primo gennaio 2020, vale circa 32 miliardi di euro, ma oltre 70 punti della manovra richiedono ulteriori decreti per diventare attuativi. Tra le varie misure previste dal governo le grandi assenti sono università e ricerca: le dimissioni del 26 dicembre del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti sono motivate dal mancato aumento dei fondi per l’università di un miliardo di euro (oltre ai quasi due presenti nella manovra). Per Fioramonti la cifra era necessaria per “restare a galla” e sarebbe stata ricavata dalla riscossione di tasse di scopo su merendine e voli aerei. L’esecutivo ha replicato un copione già visto molte volte. Nessuno dei governi degli ultimi anni ha davvero superato la Legge Gelmini del 2010 – che, tra le altre cose, aveva tagliato gli stanziamenti per la ricerca del 7% rispetto agli anni precedenti. “Abbiamo bisogno di un sistema formativo che sia realmente motore dello sviluppo del Paese, ma ancora prima delle persone che lo attraversano: per costruirlo, sia chiaro a ogni ministro e a ogni governo, servono risorse”, commenta l’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia.
Gli interventi dell’ultima manovra, quindi, non cambieranno la situazione sostanziale del nostro Paese, che destinando solo l’1,4% del proprio Pil alla ricerca, è l’ultimo in Europa per investimenti. Inoltre, le modifiche riguardano per lo più la scuola, tralasciando, di fatto, università e ricerca. Buona parte della cifra stanziata per l’istruzione – poco meno di 1,8 miliardi – servirà al rinnovo del contratto per un milione e 150mila docenti e 150mila amministrativi, oltre che per un incremento nell’organico della scuola dell’infanzia; 800mila docenti avranno inoltre un aumento lordo di 80 euro in busta paga. La formazione dei docenti verrà potenziata con 11 milioni di euro sul tema dell’inclusione scolastica e un milione per ciascuno degli anni 2020, 2021 e 2023 per prevenzione e contrasto a bullismo e cyber-bullismo. Altri stanziamenti sono destinati all’innovazione digitale e all’acquisto di abbonamenti a giornali e riviste nelle scuole. L’edilizia scolastica ottiene un fondo di 100 milioni per ciascuno degli anni dal 2021 al 2023 e di 200 milioni annui dal 2024 al 2034 per mettere in sicurezza, ristrutturare, riqualificare o costruire asili nido e scuole dell’infanzia comunali.
Per quanto riguarda l’università il governo può vantare piccoli passi in avanti, tra cui la neonata Agenzia nazionale per la ricerca che prende avvio con soli 25,3 milioni di euro a disposizione. Fondi scarsi e distribuiti senza un piano di sviluppo organico caratterizzano anche altri punti come, per esempio, la spesa di un milione di euro annui per l’insediamento al Sud di uno spazio dedicato alle infrastrutture di ricerca nelle scienze religiose e per supportare, con lo studio della lingua ebraica, la ricerca digitale multilingue in favore di coesione e dialogo interculturale. Il contentino dell’istituzione dell’Agenzia Nazionale per la Ricerca dovrebbe – con un fondo di 25 milioni di euro per il 2020, 200 per il 2021 e 300 annui dal 2022 – coordinare la ricerca pubblica e privata italiana. Altrettanto necessario era l’incremento – di un milione di euro nel 2020, che diventeranno 5 milioni nel 2021, 15 milioni nel 2022 e 25 milioni nel 2023 – del Fondo di finanziamento ordinario, per inserire nell’offerta formativa un corso necessario come gli studi di genere, oggi ancora troppo carente in tutta Italia.
Se è positivo che la manovra abbia pensato alla stabilizzazione dei ricercatori Crea (il principale ente di ricerca agroalimentare) con 2,5 milioni, sono però stati dimenticati gli altri enti. Per il periodo 2020-2024, vengono incrementate le somme per garantire la continuazione dei programmi spaziali nazionali, in cooperazione internazionale e nell’ambito dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Infine, per cercare di fare fronte rispetto alla carenza nei prossimi anni di decine di migliaia di medici a causa dei pensionamenti sono state introdotte altre 1.200 borse per la specializzazione medica, per un totale di quasi 5 milioni e mezzo di euro a beneficio dei giovani laureati. Secondo l’Associazione Giovani Medici per l’Italia le borse in più sarebbero però appena 300, mentre per la Cisl medici ne servirebbero almeno 11mila per evitare la carenza di personale sanitario e lo stallo dei numerosi neolaureati in attesa di un posto per specializzarsi.
Nel complesso, quindi, a parte qualche stanziamento per la scuola, la Legge di Bilancio 2020 non migliora la situazione disastrosa della ricerca e dell’università. Non prevede nulla di incisivo in favore dell’istruzione superiore. Garantire il diritto allo studio – direzione verso cui va, per esempio, l’incremento di 31 milioni del Fondo integrativo statale per le borse di studio – è fondamentale: raddoppia quasi l’attuale finanziamento e dovrebbe eliminare il fenomeno diffuso degli idonei non beneficiari. Gli stanziamenti non soddisfano però le associazioni studentesche: garantire il diritto allo studio è il minimo indispensabile per un Paese civile, come sottolinea l’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia. Rimarcando l’assenza di iniziative a favore di dottorandi, assegnisti e ricercatori l’associazione ha commentato: “Conosciamo le difficili contingenze in cui si trova il Paese, e proprio per questo riteniamo indecente che non si trovi neanche una briciola di risorse per il settore che più di tutti ha pagato i tagli lineari e la crisi del 2008 e che rappresenta un volano fondamentale per la crescita economica e sociale del sistema”.
Anche i governi precedenti hanno trascurato questo settore: nel 2017 la spesa italiana per l’istruzione – con 66 miliardi di euro, di cui solo 5,5 per quella terziaria – era minore della spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, risultato di tagli di oltre 600 milioni tra il 2010 e il 2015. Il confronto con l’estero è impietoso: un’analisi dell’estate scorsa mostra investimenti nel settore dell’istruzione nettamente inferiori alla media Ue con cifre, sia in percentuale del Pil (3,8%) che su quella della spesa pubblica totale (7,9%, che ci colloca all’ultimo posto in Europa, a fronte di una media europea del 10 %) tra le più basse dell’Unione. Spicca la differenza tra gli investimenti per l’istruzione primaria e secondaria, in linea con l’Europa, e quelli per l’istruzione universitaria, per la quale lo Stato ha speso solo lo 0,3% del Pil, nemmeno la metà della media europea dello 0,7%. Inoltre, secondo le stime del ministero dell’Economia e delle Finanze, la quota di Pil spesa per l’istruzione calerà di oltre il 3% di qui al 2035, riflettendo il calo demografico. Come sottolinea il rapporto Education at a glance dell’Ocse, i minori investimenti italiani non sono del tutto giustificati dal calo demografico e dunque dal minore numero di studenti.
Come conseguenza di questo disinteresse della politica, anche il tasso d’istruzione terziaria italiano è nettamente inferiore a quello del resto dell’Unione europea – con la percentuale di 30-34enni con un titolo di studio terziario al penultimo posto nell’Ue (meno del 27% nel 2018) – in parte a causa dei costi relativamente alti dell’istruzione universitaria e ai bassi rendimenti della laurea nel mondo del lavoro. Il quadro è completato da tasse universitarie elevate (il 90% degli studenti paga in media 1345 euro all’anno per gli studi di primo ciclo e 1520 euro per il secondo ciclo) rispetto agli standard dell’Ue e da un basso sostegno agli studenti. Il mancato supporto a dottorandi e ricercatori non migliora una situazione in cui oltre un quinto del personale accademico ha più di 60 anni e solo il 14% meno di 40 anni. Nel 2019 il governo gialloverde aveva stanziato fondi per 1500 posti di ricercatore universitario di tipo B (cioè con contratto triennale rinnovabile), per le varie università pubbliche in base a dimensioni e qualità della ricerca: si tratta di misure che possono aiutare, ma di portata troppo limitata per risolvere una situazione strutturale.
L’ex ministro Bussetti aveva parlato di finanziamenti per 100 milioni dal 2020, ma ricercatori e dottorandi chiedono 150 milioni in borse di studio, 70 per le borse di dottorato e 200 per risolvere il precariato negli enti di ricerca, per un totale di 1,5 miliardi, quasi in linea con l’impegno che si era assunto Fioramonti senza successo. Senza un piano strutturale di interventi di lungo periodo per università e ricerca – indice della libertà e del benessere di un Paese – sarà ancora più difficile risollevarsi dalla stagnazione del sistema economico e sociale italiano. Con meno investimenti per ricerca e università si cresce meno, anche economicamente: stanziamenti con il contagocce, che nel breve termine possono sembrare un risparmio, sul lungo periodo si rivelano misure dannose, con minori opportunità di crescita tanto per i giovani quanto per l’intero Paese.
L’istruzione terziaria è fondamentale nella nostra società perché promuove lo sviluppo economico e la crescita e migliora il benessere dei cittadini: più una popolazione è istruita, più crescono produttività e innovazione con l’adozione di nuove idee e tecnologie. Di certo un piano coerente è difficile da mantenere con governi diversi ogni anno, ma l’università e la ricerca dovrebbero essere una priorità per tutti gli schieramenti politici: resta da chiedersi quando lo capiremo e ci impegneremo davvero per tradurre questa consapevolezza in realtà.