CHE TIPOLOGIA DI CRISI ABBIAMO DAVANTI, COSA LA ORIGINA, COME CONTRASTARLA E QUALI PROPOSTE INTRODURRE

Una crisi inedita, strutturale e sistemica. Viviamo tempi di grandi cambiamenti. Per la prima volta l’umanità è immersa in una crisi inedita che mette insieme crisi di varia natura: ambientale, economica, finanziaria, energetica, alimentare e migratoria. Quella che incautamente è stata presentata nel 2008 in Europa e Nord America come una crisi finanziaria e del sistema bancario è, in realtà, una crisi ben più complessa. Siamo davanti a una crisi che per sua stessa natura è inedita rispetto al passato e strutturale per i meccanismi che investe e le risposte necessarie a risolverla. Le minacce maggiormente avvertite giornalmente dalla grande maggioranza della popolazione sono due: la crisi sociale e la crisi ecologica. La prima sta generando diseguaglianze insostenibili e la seconda rischia di portare la razza umana al collasso e che oggi provoca enormi danni in termini economici e umani.

L’aumento inarrestabile della povertà e dell’esclusione sociale. I dati sull’aumento della povertà e dell’esclusione sociale in Italia e nel resto del continente europeo fotografano una crisi che, per ampiezza e profondità, trova termini di paragone solo con la grande crisi del ’29.

Nel nostro paese i numeri della povertà descrivono una situazione caratterizzata da forti diseguaglianze. I dati del rapporto Istat dal 2008 al 2017 mettono in evidenza come la povertà relativa e quella assoluta siano quasi triplicate, coinvolgendo un numero di persone impressionante. Nel dettaglio, dal 2008 la povertà relativa è passata da circa 3,5 milioni a 9 milioni 368mila individui coinvolti nel 2017. Questo significa che il 15,6% della popolazione italiana è costretta a sopravvivere con 651 euro al mese, essendo questa la soglia che definisce la povertà relativa. Se guardiamo al dato della povertà assoluta, l’Istat denuncia come le persone colpite siano passate da 2,3 milioni del 2008 agli addirittura 5 milioni e 58mila individui del 2017. Parliamo dell’8,4% della popolazione complessiva che non ha la possibilità di spendere, mensilmente, la cifra necessaria per accedere a beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile. Spaventoso è il dato italiano della povertà minorile che pone il nostro paese in cima alla triste classifica europea delle percentuali di rischio povertà minorile: dal 2011 al 2017 i minori che vivono in condizioni di povertà assoluta sono passati da 723 mila a 1 milione 208mila, il 12,1%. All’aumento esponenziale della povertà si accompagnano: la crescita del livello di dispersione scolastica oltre il 17%, tra i peggiori d’Europa; la perdita del 25% di capacità produttiva dall’inizio della crisi; l’esplosione della disoccupazione giovanile al 31,7% nella fascia 15-24 anni e al 16% in quella dai 25 ai 34 anni; il diffondersi del precariato come elemento costituente le relazioni lavorative e sociali, coinvolgendo più di 4 milioni di “working poors”, cioè di lavoratori e lavoratrici che nonostante il lavoro non riescono, a causa delle basse retribuzioni, a uscire dalla soglia di povertà; la registrazione di circa 12 milioni di persone che non riescono più a curarsi . Questa analisi ci restituisce un dato fondamentale: il 30% della popolazione, 1 persona su 3, è a rischio esclusione sociale.

L’Italia non è l’unico paese a registrare questi dati. In Europa sono oltre 135 milioni le persone che vivono in condizioni di povertà relativa, quasi un terzo della popolazione complessiva; ben 43 milioni quelle in povertà assoluta e 20 milioni quelle disoccupate. Una crisi che ha colpito in misura e forma differenti le diverse categorie sociali e i diversi Paesi. I ceti medi e i ceti popolari sono stati i più danneggiati. Così come tra i paesi UE, i cosiddetti PIIGS- Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – hanno pagato e continuano a pagare alla crisi un prezzo più alto rispetto agli altri. Basti pensare che solo in questi paesi sono stati ben 7 milioni i posti di lavoro persi dal 2008 a oggi.

Il ruolo delle politiche economiche e della finanza nell’aumento della povertà. La prima valutazione che possiamo fare è che una persona diviene povera quando si perde il lavoro e non si accede ai servizi garantiti attraverso le politiche sociali. Sono queste ultime, a partire dal Welfare, che assolvono il compito di ridistribuire la ricchezza, garantendo i servizi basici essenziali per il soddisfacimento dei diritti legati alla Dignità della persona. Considerando i tagli alle politiche sociali e la mancanza di investimenti pubblici per sostenere la domanda aggregata in una fase di calo dei consumi, così da sostenere e generare lavoro, ci appare evidente che l’aumento esponenziale della povertà non sia stato frutto della casualità ma sia la conseguenza di politiche economiche sbagliate o addirittura controproducenti in diversi casi: nello specifico il Fondo Nazionale Politiche Sociali è passato da 3,2 miliardi di euro dei tempi di Prodi, ad appena 99 milioni attuali. Un ulteriore elemento che ha determinato l’ampiezza e la profondità della crisi è stata l’incapacità della politica di impattare la crisi ecologica sfruttandola a proprio vantaggio creando una nuova base produttiva poggiata sulla riconversione ecologica, generando milioni di posti di lavoro in tutta Europa, indirizzando consumi e scelte culturali in termini di sostenibilità.

A tele proposito, se guardiamo all’altra minaccia accennata in precedenza, la crisi ecologica, è ormai evidente anche in questo caso come i dati, gli studi, le analisi e le prospettive indicate in maniera univoca dalla scienza, siano ormai incontrovertibili. L’aumento della temperatura del pianeta con tutte le sue molteplici conseguenze, l’inquinamento ambientale e genetico, la perdita di biodiversità, l’eccessivo e insostenibile utilizzo delle risorse non rinnovabili, sono già oggi un fattore di enorme preoccupazione e cambiamento, avendo queste degli impatti economici, sociali e culturali senza precedenti nella storia del genere umano. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale, così come l’International Panel on Climate Change, ha denunciato come siano presenti nell’atmosfera tonnellate di sostanze clima-alteranti per una misura superiore alla soglia massima indicata nelle Convenzioni Internazionali sottoscritte da quasi tutti i governi del pianeta, raggiungendo il picco massimo nella storia umana.

La denuncia senza appello è diretta a un sistema produttivo incapace di modificare la propria struttura, adattandosi e mitigando gli effetti dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica nel suo complesso. Se non vogliamo rischiare di mettere a rischio più di quanto già non lo sia la razza umana, la necessità di una riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica rappresenta una scelta politica indifferibile. Da anni vi è un ampio dibattito sull’urgenza irrinunciabile di promuovere un altro modello economico che abbia come obiettivo quello di creare e garantire lavoro e una buona qualità della vita per tutti e tutte, senza superare i limiti imposti dalle leggi della fisica e della natura.

In questo contesto la finanza e le politiche economiche svolgono un ruolo chiave per raggiungere gli obiettivi di piena occupazione e sostenibilità ambientale delle forze produttive. Sino a oggi questo ruolo è stato purtroppo giocato in negativo.

La performatività della finanza speculativa. La finanza internazionale è stata determinante nell’esplosione della crisi e nelle scelte, rivelatesi sbagliate, da contrapporre per arginarla. Tutti ricordano l’esplosione della bolla finanziaria che dal 2008 ha travolto centinaia di milioni di piccoli risparmiatori, a cui si accompagnò la scoperta che la maggior parte delle banche avessero in pancia titoli tossici e strumenti finanziari speculativi di grande rischio. Buchi e frodi per migliaia di miliardi. Scienziati della finanza e polizie di mezzo mondo, studiando il sistema finanziario arrivarono alla conclusione di essere dinanzi a un sistema e criminogeno mafioso senza precedenti. Abbiamo scoperto come il rapporto tra indebitamento e capitali propri, il cosiddetto leveraggio, fosse decine di volte superiore ai limiti stabiliti per legge, facendo emergere un rapporto di 40 a 1 e in molti casi addirittura di 75 a 1. Montagne di rischi e di scommesse gestiti attraverso modelli e algoritmi che grazie alla “perfotmatività” della teoria dominante hanno creato una nuova realtà all’interno della quale l’economia produttiva perde completamente di importanza, essendo diventata molto meno redditizia e ben più faticosa rispetto ai favolosi, immediati e facili guadagni offerti dalla finanza speculativa. Nel 2008 e nel 2009 quando la crisi di finanza e banche rivelava al mondo tutta la fragilità della governance politica, quasi tutti i governi si impegnarono a riformare definitivamente e in maniera radicale il sistema finanziario, ormai privo di qualsiasi controllo democratico, considerato di per sé ostativo rispetto a qualsiasi politica di rilancio dell’economia. A distanza di 5 anni dall’inizio della crisi, nonostante i giganteschi danni provocati, pochi oggi ricordano che nulla è stato fatto di quanto dichiarato dalla governance politica.

Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano. La “wall street reform 2010” e il “rapporto Liikainen 2012 CE”, gli unici due tentativi di riforma, si sono rivelati completamente inutili e oggi siamo messi peggio di prima. Non esistono leggi per richiamare e colpire i responsabili e nonostante il mare di soldi spesi per salvare le banche, i cittadini e i loro governi non hanno nessun controllo né su queste, né sulle politiche finanziarie. Dai dati della Commissione Europea apprendiamo come tra ottobre 2008 e ottobre 2010 la stessa abbia approvato aiuti di Stato per le istituzioni finanziarie per 4.600 miliardi di euro, pari al 37% del Pil Europeo. Sono stati i governi dei paesi europei a legittimare questa spesa, assumendosi la responsabilità di salvare con soldi pubblici le grandi banche fortemente a rischio default. La crisi bancaria è stata trasformata con questa scelta politica in crisi dei bilanci pubblici, facendo esplodere i debiti dei paesi più esposti e con minori tutele sociali. Il debito aggregato europeo cresce infatti dal 2008 al 2010 di ben 20 punti percentuali, passando dal 6O% all’80%, certificando la relazione diretta tra crisi” bancaria e aumento del debito. Basti guardare all’Irlanda che per “salvare” alcune delle sue banche sull’orlo del fallimento è passata da un rapporto debito/Pil del 25% nel 2007 al 108% nel 2011. Allo stesso modo, possiamo affermare in termini di evidenza scientifica che non vi sia nessuna correlazione tra aumento del debito pubblico e spesa sociale, come invece sostenuto dai teorici e dagli estimatori delle politiche di austerità. A nostro avviso sono state proprie queste a far esplodere la crisi, rispondendo alla crisi bancaria e finanziaria nella maniera sbagliata, espandendone gli effetti prima sui bilanci nazionali, poi continuando a chiedere contrazione dei diritti e tagli al welfare in nome delle compatibilità finanziarie e delle politiche di bilancio fondate sul patto di stabilità, imponendo tagli a politiche sociali e investimenti pubblici, con la conseguenza di un enorme aumento della povertà e dell’esclusione sociale. Un ulteriore effetto negativo delle politiche di austerity sta nella perdita di credibilità e di autorevolezza delle istituzioni europee e nazionali. Una perdita di consenso nel progetto della UE causato evidentemente dall’aver devoluto alla finanza internazionale gran parte del potere decisionale prima gestito dai parlamenti nazionali, insieme allo svuotamento di senso e di utilità di molte istituzioni locali, costrette a fare i conti con i vincoli di bilancio imposti dall’austerity che hanno mutilato il ruolo degli enti locali nella lotta all’aumento delle diseguaglianze sociali. Tendenze che spiegano il rafforzamento di vecchi e nuovi nazionalismi e populismi nel continente. “L’ex presidente degli Stati Uniti, Franklin Roosevelt, ricordava durante la grande crisi del ‘29 che quando il popolo tollera l’emergere di un potere privato capace di disporre di enormi quantità di capitali in grado di alterare gli equilibri stabiliti dalle politiche economiche pubbliche, le democrazie sono a rischio.

La finanza pubblica e la cooperazione come risposta alla crisi. La finanza pubblica e la cooperazione sono formidabili strumenti da mettere in campo per rispondere ai fallimenti di modelli fondati sulla competizione e sullo sfruttamento delle risorse naturale e degli esseri umani. Ancor più utili si dimostrano in periodi di crisi come questo in cui emergono tutti i limiti e gli impatti negativi prodotti da austerity e finanza internazionale. Del resto, sempre citando il presidente Roosevelt, “la concorrenza è utile fino a un certo punto e non oltre, e la cooperazione, che è la cosa per la quale dobbiamo oggi adoperarci, inizia dove la concorrenza finisce”. Cooperare, dunque. La riflessione ulteriore da condividere e approfondire, per evitare gli errori compiuti dalla stessa cooperazione internazionale in passato, è quella sui motivi e gli obiettivi che ci spingono a cooperare. In sostanza, quali sono le finalità che ci poniamo attraverso gli strumenti della finanza pubblica e della cooperazione internazionale? Affermarli non è esercizio secondario, anzi. Gli obiettivi della finanza pubblica sono, a nostro avviso: cambiare la politica monetaria dell’eurozona, ridimensionare il ruolo della finanza internazionale, affrontare il problema del debito in termini di responsabilità comune, ristrutturare il debito, introdurre gli Eurobond con Io scopo di rifinanziare il debito pubblico degli stati membri e finanziare la riconversione ecologica della filiera produttiva europea. Anche per liberare risorse il ridimensionamento della finanza internazionale è fondamentale. In concreto significa introdurre regole stringenti che vietino le attività finanziarie più speculative e rischiose, introducendo una divisione tra banche commerciali e banche d’investimento, il controllo sui movimenti di capitale e una tassa sulle transazioni finanziarie. Se questi sono gli obiettivi, anche la cooperazione internazionale deve poter svolgere un ruolo proattivo in questa direzione sia all’interno che all’esterno dell’Europa. È Io strumento attraverso il quale perseguire le medesime finalità con soggettività di altri continenti, riproducendo un impianto condiviso di valori, espandendo il livello e la quali della partecipazione. Se la finanza pubblica viene adoperata per affrontare la crisi attraverso una restituzione dei diritti e dette scelte decisionali ai cittadini e alle cittadine, anche la cooperazione deve promuovere analoghi obiettivi e metodi. Non più una cooperazione che esporta il nostro modello di sviluppo, che riproduce uno schema paternalistico in cui il bianco “aiuta” il povero nei sud del mondo, sfruttando i fondi messi a disposizione per le emergenze e rigorosamente gestiti da agenzie occidentali, che tratterranno per loro molto più di quanto viene destinato negli interventi. Non più una cooperazione avulsa dalle culture, dalle economie e dalle comunità locali dove agisce. La cooperazione capace di stare al passo con la sfida imposta dalla crisi, deve essere fondata sulla “reciprocità” e perseguire, attraverso i suoi progetti, la giustizia ambientale e sociale.

Abbiamo compreso anche attraverso i documenti delle agenzie delle NU, come nel caso della UNDP nel 2011 a Cancun durante il vertice sul clima, come vi sia a partire dal 1992 un legame diretto tra l’aumento della povertà e la distruzione ambientale. Come affermavamo in precedenza, la giustizia ambientale costituisce la precondizione per raggiungere la giustizia sociale. È quindi l’elemento che determina il successo o meno di qualsiasi politica di contrasto all’esclusione sociale. Questo significa che ogni azione e progetto di cooperazione che si pone come orizzonte ideale la giustizia, per raggiungerla deve integrare nel proprio armamentario culturale, giuridico, economico e progettuale il perseguimento della giustizia ambientale. È proprio dall’impegno per la giustizia ambientale portato avanti da un miliardo di persone nel mondo negli ultimi 30 anni che emerge un nuovo paradigma di civilizzazione fondato sulla relazione positiva tra giustizia e sostenibilità. Questo campo, non avendo precedenti storici per modalità e obiettivi, è stato definito “ecologismo dei poveri” o “ecologia della liberazione”. Dovrebbe essere questo il “target” preferito dalla cooperazione internazionale, considerando la composizione dei soggetti e il loro portato culturale, necessario a contaminare in termini di reciprocità lo scambio: meno solidarietà e più giustizia; meno aiuti e più reciprocità; meno benessere e più buon vivere.

Il ruolo dei BRICS. Alternativa o sostegno alla finanza internazionale? La crisi strutturale e sistemica esplosa con la crisi finanziaria e bancaria, i cui effetti in Europa sono stati amplificati attraverso l’imposizione delle politiche di austerità, ha determinato modifiche anche sugli assetti geopolitici. Siamo davanti alla nascita di un potere multipolare che oscilla tra affinità e conflittualità a seconda delle diverse geografie e dei diversi ambiti di intervento.

Nel nuovo scenario planetario creato dalla crisi, il ruolo dei paesi che fanno parte dell’asse denominato BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, è notevolmente cresciuto. Il tentativo dei paesi occidentali di marginalizzare il ruolo politico e finanziario dei paesi emergenti, a partire dalla Cina, insieme alle necessità del gigante asiatico di costruire infrastrutture finanziarie idonee a gestire la sua espansione, hanno portato alla nascita di una Nuova Banca di Sviluppo Internazionale, la New Development Bank. Annunciata proprio dai presidenti dei BRICS lo scorso 16 luglio 2014 a Fortaleza in Brasile, l’iniziativa è stata presentata come una sfida alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. I cinque paesi dell’economie maggiormente in crescita a livello internazionale hanno deciso di aprire a Shangai la sede della NDB, dotando l’istituto di 100 miliardi di dollari. Il contributo maggiore è portato dalla Cina, con 41 miliardi, mentre Brasile, Russia e India si sono impegnate per 18 miliardi e il governo di Pretoria per 5. L’obiettivo principale dichiarato è quello di mobilitare risorse per infrastrutture e progetti di sviluppo sostenibile nei BRICS e negli altri paesi in via di sviluppo. Sulla carta, considerate le disponibilità finanziarie e gli annunci ufficiali, siamo dinanzi a una nuova banca mondiale che si pone come alternativa al FMI e alla BM, puntando a costruire una nuova architettura finanziaria globale in cui il ruolo degli USA e dei principali paesi occidentali ne esca fortemente ridimensionato. Questa è una delle possibilità. Procedendo a un’analisi più attenta, le prospettive non sono poi così certe, visti una serie di fattori. Innanzitutto, all’interno dei BRICS non sempre le vedute coincidono sui temi politici ed economici, anzi. A esempio il China Daily, subito dopo il vertice di Fortaleza, si è affannato a ricordare come in realtà i BRICS con la creazione della nuova banca “stessero venendo incontro alle richieste dell’occidente”. In effetti, in molti casi i governi dei BRICS, in particolar modo quello indiano e sudafricano, si sono dimostrati in questi anni di crisi grandi sostenitori delle politiche economiche occidentali, soprattutto in materia ambientale e finanziaria. Se il nodo da sciogliere della crisi sta nella capacità di de-finanziarizzare l’economia e dar vita a una riconversione ecologica delle attività produttive per rispondere alla crisi sociale ed ecologica, le scelte fatte in questi anni dai BRICS non sembrano troppo coerenti con il ruolo che la NDB dovrebbe svolgere. Un altro segnale di ambiguità lo si coglie dalla volontà di Mosca e Pechino di non appoggiare l’ascesa al Consiglio di Sicurezza dell’ONU degli altri tre paesi BRICS. Così come il sistema di voto proposto per la NDB, che riproduce l’identico meccanismo attraverso quote di denaro del FMI, è un ulteriore elemento che tradisce l’auspicio di una maggiore democratizzazione degli organismi sovranazionali. Rimangono dunque molti interrogativi che non consentono di definire con certezza quale sarà il ruolo politico della NDB.

Sicuramente abbiamo bisogno a livello internazionale di un’alternativa finanziaria che sia veramente sostenibile e democratica, non per stabilizzare la finanza internazionale ma piuttosto per costruire un’alternativa giusta, capace di perseguire il bene comune. Bisognerà capire se i BRICS utilizzeranno la NDB come “stabilizzatore”, e dunque sono destinati a riprodurre la crisi per ceti medi e popolari, ampliando ulteriormente quella ecologica, oppure vorranno impegnarsi per una reale alternativa inclusiva e democratica. Un ruolo fondamentale per spingere in tal senso lo giocheranno i movimenti, le reti sociali e sindacali, le organizzazioni della società civile impegnati in questi anni a difendere la giustizia ambientale e sociale e a promuovere forme di democrazia partecipate e modelli economici incentrati sul buon vivere.

Vecchie e nuove povertà nel nostro paese: quali interventi?

L’intervento sulle “vecchie” povertà tradizionali, che già conoscono la vita di strada, costituisce l’ambito più “collaudato” dell’esperienza dei servizi. Per le persone che vivono in strada, la risposta ai bisogni essenziali inevasi, costituita da mense e dormitori, pubblici e del non–profit, costituisce una rete che, pur insufficiente, è dotata di un coordinamento, di una riflessione tecnico-operativa e di una prassi consolidata che, in alcune città metropolitane in particolare dove il fenomeno si concentra, sta cercando di mettere in atto livelli essenziali di assistenza nella carenza e nella precarietà degli interventi predisposti. Rimane il problema non ancora assunto, se non in termini sporadici ed eccezionali, rispetto a quale sia la progettazione necessaria per il reinserimento sociale, finalizzato al superamento della condizione di esclusione.

L’intervento sulle nuove povertà, vulnerabilità e marginalità, rivelandosi come una necessità più recente, ha colto impreparate non solo le Amministrazioni che hanno dovuto fare da primo interfaccia alle situazioni di indigenza ma anche le stesse organizzazioni di volontariato sociale e non-profit. Come evitare la deriva sociale e la condizione di progressiva marginalità di chi per esempio ha perso il lavoro, sta perdendo di conseguenza la casa, e rischia di mettere a repentaglio la convivenza dell’unità familiare, costituisce una problematica che conserva ancora marcate valenze preventive e non costringe a un intervento dalle caratteristiche solo e meramente riparative. Impedire l’esecutività di uno sfratto, promuovere un passaggio dignitoso da casa a casa o attivare processi di mediazione fra il conduttore dell’immobile e la proprietà al fine di garantire l’abitazione per la famiglia, consente di attivare molto di più le energie e le responsabilità di quel nucleo, coinvolgendolo in iniziative di vario tipo.

Proprio nella denuncia e nella proposta di modalità più costruttive di intervento, i Numeri Pari dovranno saper affermare quegli elementi di discontinuità nell’approccio alle politiche sociali che permettono una radicale inversione di tendenza, ci riferiamo in particolare a:

  1. Sfratti zero” dovrebbe porsi come l’obiettivo di un impegno di contrasto alle nuove povertà, come prima occasione di un’attivazione nei territori, col coinvolgimento del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione sociale – ma non solo – nella definizione di progetti intorno alle necessità di una realtà locale, che appaiono evidenti ai cittadini, ma non sono state ancora raccolte e tantomeno risolte;

  2. Adeguamento del Fondo Nazionale Sociale” per la diffusione dei servizi sociali e l’affermazione su tutto il territorio nazionale dei Livelli Essenziali di Assistenza, senza discriminazioni regionali e locali.

  3. Investimento sull’infanzia” con una maggiore promozione all’accesso agli asili nido e alla prescolarità per i bambini delle famiglie svantaggiate e donne sole. Legge nazionale sul diritto allo studio che garantisca a tutti gli studenti effettive uguali opportunità.

  4. Istituzione del reddito di dignità”, che metta finalmente al passo anche l’Italia con tutti gli altri Stati dell’Unione Europea, da cui abbiamo fino a oggi ignorato il richiamo. Si tratta non solo di superare lo “spezzatino” delle tante ma insufficienti, e a volte contraddittorie, misure assistenziali. Il significato del reddito di dignità è più ampio: unisce a un doveroso atto di giustizia sociale l’occasione di riconnettere le risorse individuali e familiari alle esigenze scoperte delle comunità locali, restituendo protagonismo e autorevolezza sociale alle persone che vivono una condizione di marginalità e rischiano la deriva dell’emarginazione e della completa deprivazione sociale.

  5. Spesa sociale fuori dal patto di stabilità”, proposta già avanzate dalle reti e campagne sociali in questi anni, è la condizione necessaria per mettere in condizione Comuni ed Enti Locali a investire nelle politiche sociali, ridurre le disuguaglianze, sostenere esperienze innovative e co-progettazioni.

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