L’Italia cresce, poco, in modo diseguale e a tempo determinato. Questa è la fotografia scattata dalla Banca d’Italia e dall’Istat nelle ultime rilevazioni pubblicate nei giorni scorsi.
Se è vero che il Pil italiano cresce nell’ultimo trimestre dell’1,5%, la debole ripresa, trainata dai Paesi forti dell’Unione Europea, è accompagnata da forti e crescenti disuguaglianze, soprattutto tra nord e sud del Paese, da crescente povertà e da lavoro prevalentemente a somministrazione, quindi precario.
Secondo la Banca d’Italia è in aumento il numero di individui poveri, assoluti e relativi. Sono il 23% della popolazione, circa 13,5 milioni, che si uniscono agli ulteriori 3,5 milioni di individui che sono poco sopra la soglia e sono a rischio povertà. In tutto dunque 18 milioni, il 33% della popolazione. La soglia di povertà è fissata al 60% del reddito mediano, circa 860 euro al mese. Chi sta al di sotto di questa soglia è povero, e come abbiamo visto il dato è in costante aumento.
Aumentano le disuguaglianze in termini di ricchezza netta: il 30% più povero ne detiene solo l’1% (circa 6.500 €), di cui tre quarti sono a rischio povertà; invece, il 30% più ricco detiene il 75% della ricchezza (un reddito medio di 510.00€) – e il 40% di questa ricchezza è nelle mani del 5% ancora più ricco (circa 1,3 milioni).
In mancanza di un sostegno al reddito universale, la soluzione sarebbe quella di implementare politiche che producano occupazione, e di qualità. Ancora una volta, è l’Istat a dirci che l’occupazione è in aumento, ma solo quella a tempo e a somministrazione. E il Sud resta fortemente indietro rispetto al Nord.
Mentre le forze politiche che hanno vinto le elezioni si accordano per dare un nuovo governo al Paese, risulta necessaria e non più rimandabile una misura che sollevi dalla povertà chi ne è colpito: la proposta è quella piattaforma di 10 punti del Reddito di Dignità elaborata prima da Libera e poi dalla rete dei Numeri Pari sulla base della Direttiva Europea del 992 e della Carta di Nizza del 2000. Nel 2015 le reti sociali chiedevano che entro 100 giorni si approvasse una legge che introducesse il reddito minimo, ma, nonostante l’impegno di alcuni parlamentari di SEL, ora SI, e PD, nulla è stato fatto.
Con il reddito minimo garantito, si avrebbe più tempo per una necessaria riorganizzazione del mondo del lavoro, al tempo dell’elevata automazione. In questa direzione va la proposta della riduzione del lavoro a 32 ore. Il vecchio motto è sempre quello dei movimenti e delle reti sociali: lavorare meno, lavorare tutti, a parità di salario.
Servono risorse da redistribuire, attraverso una patrimoniale, un drastico azzeramento delle spese militari e una pedagogica lotta alla corruzione all’evasione fiscale. Il fatturato annuale della mafia equivale a 10 finanziarie.
Serve, poi, uscire dal cappio al collo del pareggio di bilancio in Costituzione, che ci obbliga a versare 50 miliardi all’anno all’Europa per il rientro dal debito pubblico, obbiettivo che è impossibile da raggiungere nel 2025. E infine serve sbloccare i fondi bloccati dal patto di stabilità interno, che vincola 19 miliardi di spese sociali agli enti locali.
Dunque, le risorse ci sono, come ben si vede. Serve solo che le forze politiche che si sono candidate a governare il Paese la smettano con la demagogia e il populismo e si occupino del bene dei propri concittadini e del proprio territorio. Perché non c’è più tempo.
Leftlab Bari
Rete dei Numeri Pari Puglia