In Italia ci sono due squadre di calcio nazionale: una di professionisti con contratti milionari e una di semplici dilettanti con tetti salariali, clausole anti-maternità, pagamenti in nero e poche assicurazioni sanitarie.
Solo una di queste squadre giocherà la Coppa del Mondo di calcio.
A sancire queste discriminazioni, nell’Italia del 2018, è una legge, scritta nero su bianco.
23 Marzo 1981, legge n.91 che recita “Sono sportivi professionisti gli atleti che esercitano l’attività sportiva nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI” le suddette discipline si limitano a quattro federazioni sportive nazionali: calcio, golf, pallacanestro e ciclismo, tutte esclusivamente per la categoria maschile.
Trovare una definizione che racchiuda l’insieme di emozioni, sentimenti e passioni che sono provocate dallo sport non è affatto semplice, tuttavia lo sport è e va inteso come un lavoro.
Sempre secondo la legge previamente citata “sono sportivi professionisti gli atleti che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità “
Parliamo dunque di prestazione lavorativa: una atleta donna, come ad esempio una calciatrice femminile di serie A, fornisce una prestazione lavorativa parimenti proporzionale a quella di un calciatore, ad esempio di serie C, in termini di ore di allenamento e di impegno svolto, ma una donna (di serie A) non è riconosciuta professionista al contrario di un calciatore (di serie C).
Parliamo dunque di discriminazioni.
Non sono certo discriminazioni gergali, ma concrete: la legge italiana in materia di dilettantismo calcistico prevede un tetto massimo salariale pari a 22.000€ annui, all’incirca 1.800€ mensili, che confrontati agli stipendi milionari dei colleghi uomini evidenziano un gap assurdo e inaccettabile.
“E’ puro marketing, i soldi seguono l’interesse degli spettatori” viene facilmente obiettato.
Falso, ecco perché: Uno degli sport maggiormente seguiti in Italia, e considerato “sport femminile per eccellenza” è senza dubbio la pallavolo, e i dati lo confermano. Nel 2014 secondo Lega Volley le donne tesserate furono 279.893, la stagione di serie A1 trasmessa quell’anno su Rai Sport ha avuto una media audience pari a 146mila spettatori mentre la semifinale dei Mondiali nel medesimo anno tra Italia e Cina ha prodotto quasi il 18% di sharing con un picco vicinissimo ai 4 milioni e mezzo di spettatori.
Eppure la pallavolo, come precedentemente fatto notare, non rientra tra le federazioni riconosciute professioniste dalla legge 91/81 al contrario, ad esempio, del decisamente meno coinvolgente golf.
Ma sicuramente l’aspetto mediatico è fondamentale in questa faccenda. La campagna Altri Mondiali combatte contro le discriminazioni di genere nel mondo dello sport, e lo vuole fare partendo dall’informazione.
We play like a girl è lo slogan che usiamo nelle nostre tappe, non esistono sport di genere, il calcio non è uno sport per maschi! Eppure l’influenza mediatica incide, a tal punto, che dal verbale del consiglio direttivo del dipartimento del calcio femminile in data 5 Marzo 2015 l’allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti ha dichiarato “Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche…”
Come possono dunque le atlete raggiungere stipendi più alti e dignitosi? La risposta risiede nell’unica soluzione di trovare degli sponsor, usanza diffusissima nel mondo dello sport femminile ma che sottolinea un’ennesima discriminazione evidenziata perfettamente dalle parole della campionessa olimpica Josefa Idem “A parità di carriera sportiva alla fine quello che conta è la bellezza.”
Ma non finisce qua.
Per ritrarre uno degli aspetti che più evidenzia l’assenza di pari opportunità nello sport, le parole di Luisa Rizzitelli del sindacato delle sportive Assist, forniscono agghiaccianti verità non ancora debellate:“Molte atlete sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l’espulsione immediata dalla società e il rischio di non poter più tornare a gareggiare.”A testimonianza di queste forti dichiarazioni la questione che ha coinvolto l’atleta italiana Nikoleta Stefanova merita di essere considerata.
La Stefanova, campionessa italiana di tennis da tavolo, ha subito l’esclusione dalle Olimpiadi di Rio, con consequenziale assenza di partecipazione italiana in quella disciplina, a seguito delle assenza riscontrate durante i ritiri previsti dalla Federazione Italiana Tennis da Tavolo, durante il periodo di maternità.
A questo proposito la deputata Michela Marzano ha presentato un’interrogazione al Governo di cui vale la pena soffermarsi su queste brevi righe:“Sembra emergere che il motivo che avrebbe indotto il direttore tecnico a questa decisione sarebbe stata la recente maternità dell’atleta e la conseguente breve interruzione della sua attività con la Nazionale Italiana.”Appare evidente come, nonostante la Stefanova avesse raggiunto la prima posizione del ranking italiano, il “fattore gravidanza” sia a tutti gli effetti tra gli elementi più discriminatori in ambito di genere.
Tra gli obiettivi per raggiungere un’effettivo rispetto delle pari opportunità è la considerazione della direttiva CONI di congelare il ranking nel periodo in cui un’atleta è ferma per gravidanza o maternità.
Come se la situazione non fosse abbastanza tragica, le discriminazioni proseguono anche a lavoro finito.
A proposito è intervenuta anche Manuela Di Centa, campionessa olimpica ai giochi invernali del ‘94 ed ex deputata italiana: “Come fanno dunque delle dilettanti, la quale carriera potrebbe finire anticipatamente per una gravidanza, ad avere una dignitosa retribuzione pensionistica?”
Anche in virtù del fatto che, essendo le società inserite all’interno di categorie dilettantistiche, la legge non prevede l’obbligo di versare i contributi provocando una sempre più avvilente abitudine di pagamenti in nero.
La situazione in questione non è affatto semplice, le carriere sportive sono per natura di breve durata, quasi mai superano i 15 anni, e di conseguenza costringono moltissimi atleti a doversi trovare un ulteriore impiego al termine dell’attivismo sportivo, tuttavia ancora in giovane età.
La campagna Altri Mondiali è una campagna di comunicazione e sensibilizzazione che vuole ottenere risultati concreti in tema di pari opportunità; si avvale della propria squadra di calcio femminile popolare e multiculturale che partecipa a numerosissimi eventi portando la testimonianza di queste discriminazioni.
Siamo convinti che, così come nelle partite di calcio anche nelle lotte sociali, migliori risultati si possano ottenere solo tramite il lavoro di squadra ed il supporto reciproco. Crediamo all’utilità e alla necessità della creazione di una rete nazionale e internazionale a difesa delle pari opportunità di genere nel mondo dello sport. Il nostro invito è di schierarsi, di prendere posizione e scendere in campo con noi.
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