Miti del rancore, miti per la crescita: verso un immaginario collettivo per lo sviluppo

3.1. Quando e perché siamo diventati rancorosi

Il rancore nella nostra società nasce dal blocco verso l’alto dell’ascensore sociale e dalla percezione che il nostro destino e quello dei nostri figli non abbiano orizzonti di miglioramento reale: è una condizione oggettiva e soggettiva che genera un clima sociale dagli imprevedibili sfoghi. Vince la paura di cadere più in basso, la vertigine del declassamento che alimenta una mentalità “da fortezza assediata” in cui diventa normale rimarcare le distanze dagli altri, in particolare da chi è percepito come più in basso o diverso.

Le radici socioeconomiche indicate sono profonde e visibilmente legate al trauma irrisolto della crisi, evento epocale che ha cambiato le basi materiali e psicologiche della nostra vita collettiva, lasciando in eredità un sottofondo emotivo che diventa facile ostaggio di spregiudicate imprenditorie sociopolitiche rese ancor più potenti dalle nuove opportunità del digitale.

Ecco perché non può sorprendere che la società del rancore abbia un immaginario collettivo regressivo, chiuso, infetto, proiezione di paure inconsce diffuse, intime e personali, a lungo inconfessabili e ora percepite come legittime, anzi portate a imporsi con incontenibile prepotenza come le uniche legittime, perché autenticamente sentite e condivise dal popolo.

3.2. Io starò peggio degli altri: la mutazione delle aspettative soggettive prevalenti e il caos che spaventa

La crisi cominciata nel 2008 è stata senz’altro uno spartiacque memorabile che, oltre a mutare le radici materiali della condizione sociale, ha mutato la percezione che le persone hanno di se stesse e della propria condizione socioeconomica.

È un passaggio epocale da cui non si torna indietro, perché ha radici materiali nelle condizioni economiche e perché tocca con profondità irreversibile la psicologia collettiva, che cambia senza possibilità di ritorno. La crisi è stata il grande trauma, dal quale la società e i suoi protagonisti non sono riusciti a gestire lo stress post traumatico. Utili sono alcuni esempi paradigmatici dei mutamenti avvenuti. Il primo tocca il rapporto tra le persone e gli altri e per interpretarne il senso occorre considerare che la vita quotidiana è fatta di passaggi di routine, che nel tempo tendono a ripetersi e che finiscono per diventare comportamenti e opinioni sentinella dell’evoluzione di pratiche e psicologie individuali e collettive. Così per le aspettative di inizio anno, analizzando le quali è possibile enucleare il mood prevalente della società. Per questo è molto utile interpretare i dati sulla evoluzione in venti anni delle aspettative delle persone sulla propria condizione economica e su quella degli altri: Emerge che (tavola 1):

  • nel 1998 il 27,7% degli italiani era convinto che la propria condizione economica sarebbe migliorata e il 23% che sarebbe migliorata quella in generale;

  • nel 2008, anno uno della crisi, era il 19,6% a pensare che la propria condizione sarebbe migliorata e il 20,8% a pensare che sarebbe migliorata quella degli altri;

  • nel 2018 è il 28% a dire la mia condizione economica migliorerà, e ben il 35% a pensare che migliorerà quella in generale, degli altri.

Una evidente e potente inversione di percezioni: un tempo la convinzione che per me andrà meglio che per gli altri; dalla crisi in avanti l’idea che agli altri andrà meglio che a me. E la prevalenza sociale dell’idea che gli altri staranno meglio di me, e che le cose in generale andranno meglio agli altri che a me.

Un visibile capovolgimento del rapporto tra aspettative personali e generali rispetto al prima della crisi, quando le aspettative positive sulla situazione personale erano sistematicamente superiori a quelle riferite all’intera società, alimentando la convinzione che io starò meglio degli altri.

E in parallelo, in Italia è bassa la percezione di avere le stesse opportunità degli altri per avanzare nella propria vita: infatti, è convinto di avere pari opportunità rispetto alle altre persone il 45% degli italiani, mentre è il 60% in Francia, il 70% in Germania, il 52% in Spagna, il 58% nella media dei Paesi Ue oltre l’81% in Svezia (tavola 2).

Una società che per la maggioranza degli italiani non è in grado di offrire chance di crescita o che in ogni caso spinge le persone a pensare che gli altri hanno maggiori opportunità.

E poi c’è la percezione che occorra difendersi da incertezze e paure. L’instabilità della propria condizione è la base di una sensazione più generale di incertezza, che rende vulnerabili e pronti a cedere a ogni paura. In ogni ambito occorre difendersi mettendosi nelle condizioni di affrontare situazioni impreviste.

L’ossessione dell’essere soli di fronte all’incertezza guida scelte essenziali della vita propria e familiare, a cominciare dalla destinazione del reddito. Ulteriori dati di percezione collettiva consentono di focalizzare il clima sociale che fa da sfondo e alimenta l’immaginario collettivo infetto, esito appunto di incertezze e paure.

Il 60% degli italiani è convinto che in Italia le cose stanno andando nella direzione sbagliata e solo in Grecia e in Spagna si registrano quote più elevate che fanno propria tale opinione; in Italia rispetto al 2007, cioè l’ultima anno precrisi, la quota di coloro che considerano sbagliato il sentiero su cui si muovono le cose è cresciuto di 8 punti percentuali (tavola 3). Il 39% degli italiani non ha fiducia nel futuro: in questo caso, addirittura, nel panel di paesi Ue presi in considerazione, solo la Grecia mostra una quota nettamente più alta; la stessa Spagna ha nel corpo sociale una propensione più positiva verso il futuro (tavola 4).

Percezione che le cose non vanno nella direzione giusta e sfiducia nel futuro sono probabilmente l’esito di una situazione generale che sorpassa le persone, le mette di fronte a una complessità del reale di ogni giorno che stentano a capire e più ancora a gestire.

Infatti, ben il 35% degli italiani dichiara di non capire quel che gli sta accadendo intorno e, fatta salva la Spagna, questa percezione di realtà opaca e impenetrabile connota gli italiani in misura più marcata rispetto al resto delle società della Unione Europea (tavola 5). Una incertezza che promana da una realtà impenetrabile nelle sue logiche, che incombe sulla vita familiare come una minaccia: è questo il cuore del sentiment sociale nel nostro Paese in questa fase e l’humus su cui poi si innesta il rancore di chi non vede sbocchi e soprattutto non vede uscite in avanti per la condizione propria e dei propri figli. Pensare che le cose vadano male, e che a se stessi vadano peggio che agli altri, fa crescere malanimo e rabbia interiore, che si innestano nei circuiti delle relazioni sociali alimentando le derive peggiori.

3.3. Come riuscire nella vita

Per progredire nella vita, per gli italiani sono importanti lavorare sodo e il titolo di studio e tuttavia contano anche molto, soprattutto in confronto con altri paesi Ue, la provenienza da una famiglia agiata, le conoscenze o anche gli agganci politici.

Infatti, per progredire nella vita ritengono essenziale (tavola 6):

– conoscere le persone giuste il 28% degli italiani, il 22% dei tedeschi, il 16% dei francesi, il 15% degli svedesi e il 15% dei residenti nel Regno Unito;

– provenire da una famiglia agiata, il 18% degli italiani, il 7% dei tedeschi, il 4% dei francesi, solo l’1% degli svedesi e il 6% dei residenti nel Regno Unito;

– avere i giusti contatti politici, il 22% degli italiani, il 5% dei tedeschi, il 3% dei francesi, solo l’1% degli svedesi e il 4% dei residenti nel Regno Unito.

Lavorare sodo è essenziale per la mobilità sociale in alto per il 26% degli italiani, il 23% dei tedeschi, il 25% dei francesi, 22% degli svedesi e il 45% dei residenti nel Regno Unito. Per gli italiani poi la fortuna è essenziale per il 34%, di contro al 20% dei tedeschi, 11% dei francesi, 6% degli svedesi e 8% dei residenti nel Regno Unito.

 

3.4. La mappa dei pregiudizi, anticamera dei rancori

I rancori seguono la traccia dei tanti e sollecitati pregiudizi, sempre meno inconfessabili, che afferiscono a dimensioni quotidiane quasi intime. La retorica pubblica del politically incorrect ha progressivamente sdoganato la caccia alla diversità come bersaglio su cui concentrare il fuoco del rancore.

Emerge una mappa di pregiudizi sociali, razziali, culturali sorprendente, che disegna una trama che avvolge la quotidianità. Trama che resta sottotraccia ma che sempre più è pronta a salire in superficie, tanto più se sollecitata o solleticata.

Ecco il sostrato emozionale, istintivo del rancore, che alimenta immaginari personali che trovano un filo unitario in immaginio racconti che alimentano l’immaginario collettivo regressivo.

È stato chiesto alle persone di esprimere un giudizio all’idea che la propria figlia sposi una persona con specifiche caratteristiche etniche, economiche o sociali ed è emerso che l’83% degli italiani ha almeno un pregiudizio negativo e in particolare (tavola 7):

  • il 68% è contrario al matrimonio della propria figlia con una persona con almeno 20 anni di distanza, con una dello stesso sesso o con una che ha già figli;

  • il 66% al matrimonio con persone di altra religione, in particolare islamica;

  • il 44% con immigrati, asiatici o persone di colore.

In caso di matrimonio dei figli maschi è l’80% ad avere almeno un pregiudizio, di cui:

  • il 68,2% è contrario al matrimonio con una persona con almeno 20 anni di distanza, dello stesso sesso e che ha già figli;

  • il 58,1% con persone di altra religione, in particolare islamica;

– Il 35,9% con immigrati, asiatici o persone di colore.

La mappa dei pregiudizi individuali riflette altrettante linee di diversità socioculturale che andrebbero trattate con grande cautela e su cui invece si applicano le sollecitazioni del fake digitale intenzionale e delle folate neopopuliste.

Le paure o semplici resistenze inconsce verso le diversità incontrano la rabbia sorda dell’insoddisfazione socioeconomica: se questa miscela esplosiva inerte viene sollecitata con la moltiplicazione di un immaginario collettivo divisivo, che addita le diversità come origine dei mali e la loro esclusione come soluzione, allora si arriva ai giorni nostri con rancori che diventano micidiali navigatori dei comportamenti sociali e una deriva sociale patologica.

 

L’altro immaginario collettivo che fa crescere

5.1. Verso dove andare

Vitale, palpitante, che guarda agli altri e al futuro, che è concretamente ottimista: ecco in sintesi estrema il profilo dell’immaginario collettivo che in passato ha fatto crescere l’Italia, e che costituisce la sfida sul quale il presente progetto si vuole cimentare. Un immaginario per lo sviluppo, in grado di contribuire ad alimentarlo, richiede:

– un consumo ispirato alla logica di più e meglio;

– una propensione a crescere, dalla famiglia all’economia alle condizioni del vivere civile, come cifra del pensare e dell’agire;

– un’idea del futuro come piattaforma di opportunità e non come fonte di rischi e negatività;

– la convinzione che il contesto offra le opportunità giuste per migliorarsi, crescere, ottenere il giusto beneficio quando si investe.

Questo è l’orizzonte di riferimento per un immaginario collettivo positivo, che non irrigidisca paure, arroccamenti, chiusure; che sia ottimistico, virtuoso, positivo.

5.2. L’egemonia di web e social nella formazione del senso comune

I media che più contano variano significativamente per età delle persone; tra i millennials e più ancora tra i giovani con età tra 18 e 29 anni vincono internet e i social network, che sono centrali anche per i baby boomers, tra i quali il successo di alcune piattaforme, da facebook a whats app, è decisivo (tavola 10).

Per gli anziani invece sono la televisione e i giornali a guidare la graduatoria dei media che più influenzano. In sostanza, è in atto una profonda ridefinizione generazionale dei media di riferimento, che notoriamente hanno una influenza decisiva nella formazione dell’immaginario collettivo di oggi.

È evidente una faglia decisiva tra le generazioni più giovani e gli anziani, con un evidente processo di adattamento degli adulti. Guai a sottovalutare la persistente influenza di televisione e carta stampata, ma nei processi di formazione della cultura sociale collettiva, e quindi anche dell’immaginario collettivo, è ormai decisivo il ruolo del web e dei suoi derivati, con un trionfo delle forme di espressione di una soggettività dispiegata.

5.3. Le cose che contano per le diverse generazioni

La frattura generazionale è un punto di partenza ineludibile per capire le dinamiche future attese, possibili e auspicabili del nuovo immaginario collettivo. Esempi di questa dinamica differenziante sull’immateriale, dai sogni ai desideri, alle cose che contano nella vita, emerge dai risultati di una indagine del Censis che ha consentito di individuare il punto di vista dei cittadini sulle cose che contano nell’immaginario collettivo (tavola 11).

Emerge che i millennials danno un rilievo maggiore a social e smartphone, e che questa centralità dei nuovi device Ict è ancora più alta per i più giovani di età 18-29 anni, i quali sono portatori di una rottura ancora maggiore perché hanno un’attenzione inferiore per miti decisivi delle generazioni precedenti, come il posto fisso o la proprietà della casa, nettamente inferiore. E d’altro canto i giovani sono molto più attenti alla cura del corpo (dai tatuaggi al fitness, alla chirurgia estetica, cui si ricorre per rimodellare il proprio aspetto): 21,8%. E prevale il richiamo al selfie (19,3%) rispetto al buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale e all’automobile nuova come oggetto del desiderio (rispettivamente, il 15,5% e il 7,6%).

I pilastri dell’immaginario collettivo tradizionale della crescita, dal posto fisso alla casa di proprietà, all’automobile nuova, oggi sono meno valutati dai giovani, fortemente orientati verso quelle tecnologie della quotidianità che strutturano vite individuali e relazioni sociali.

 

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