Tratto dal settimanale Left – Numero 35, 29 agosto 2019 > 5 settembre 2019
Il primo ghiacciaio della Terra è morto a causa del riscaldamento globale e del cambiamento climatico. Okjokull, questo il nome dell’ex gigante di ghiaccio islandese. Si è sciolto dopo 700 anni. Sono centinaia i ghiacciai a rischio minacciati dalle alte temperature, anche nel nostro paese, come denuncia l’ultimo studio degli Istituti di scienze marine, dell’atmosfera e del clima del CNR. Quelli che stanno già scomparendo sono 26. Si prevede che entro fine secolo nel nostro paese tutti i ghiacciai montani potrebbero essere estinti. Da un lato lo scioglimento dei ghiacciai provocato dall’aumento delle temperature. Dall’altro il disboscamento selvaggio e gli incendi che hanno devastato nord e sud del mondo in questi mesi. In Amazzonia quest’anno sono già più di 73 mila gli incendi, un aumento dell’83% rispetto allo scorso anno. Il disboscamento nell’ultimo anno è cresciuto del 278% secondo l’Istituto nazionale per le ricerche spaziali (Inpe) brasiliano. Il presidente Bolsonaro da la colpa ad ambientalisti ed ong, autorizza il disboscamento e licenzia il direttore dell’Inpe, Ricardo Galvao. Scioglimento dei ghiacciai, disboscamento, incendi, aumento delle temperature: un circolo vizioso che mostra la spirale di violenza innestata dalla crisi di sistema e di visione nella quale siamo immersi tutti.
C’è chi ha pensato in questi decenni di superare la crisi ecologica promuovendo la cosiddetta “crescita verde”, nel tentativo di mettere d’accordo gli interessi del capitalismo e della Terra. Per molto tempo si è erroneamente affermato che si potesse allo stesso tempo realizzare un aumento del PIL diminuendo il consumo di risorse naturali. Già l’economista Jevons aveva dimostrato molto tempo fa come fosse impossibile. Lo spiegò con la teoria dell’effetto rimbalzo, o paradosso: sul mercato l’aumento dell’efficienza di una risorsa alla lunga fa aumentare il consumo di quella risorsa, anziché diminuirlo. Oggi a seppellire l’idea di un “disaccoppiamento” tra crescita e ambiente, colpevolmente sostenuta in questi decenni anche da forze politiche cosiddette progressiste e da una larga parte dell’ambientalismo occidentale, ci ha pensato lo European Environmental Bureau. Una rete di 143 organizzazioni ed un team internazionale di ricercatori di 30 paesi ha pubblicato lo scorso 8 luglio la prima analisi scientifica sul “Decoupling debunked”, denunciando come “non solo non ci sono prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni ambientali in misura anche solo vicina a ciò che servirebbe per affrontare il collasso ambientale, ma, e forse è ancora più importante, sembra improbabile che tale disaccoppiamento si verifichi in futuro”. La strategia basata sull’aumento dell’efficienza, tanto cara alle grandi coalizioni bipartizan, non funziona se non si integra con la necessità di raggiungere la “sufficienza”. Vuol dire consumare meno e ridimensionare molti settori produttivi, per ricondurre lo sviluppo all’interno dei limiti del pianeta e delle sue capacità di rigenerazione ed autorganizzazione. Altrimenti continueremo a contrarre un deficit ecologico che ogni anno peggiora. Il giorno dell’anno in cui consumiamo prima del tempo le risorse che la terra è in grado di rigenerare, l’overshoot day, quest’anno è stato il primo agosto. In concreto per noi umani un aumento del deficit ecologico significa crescita di povertà, aumento delle disuguaglianze, migrazioni ambientali forzate, mancata coesione sociale, guerre.
Il rapporto EEB chiede un radicale cambio di paradigma per “riaccoppiare” il presente con il futuro. Il disaccoppiamento non consente di raggiungere la sostenibilità ecologica. “E’ irrealistico aspettarsi che gli aumenti dell’efficienza possano scollegare in modo assoluto, globale e permanente dalla sua base biofisica un metabolismo economico in costante crescita. Cercare di risolvere questioni di giustizia sociale ed ecologica con il disaccoppiamento è come provare a tagliare un albero con il cucchiaio: un’operazione probabilmente lunga, e ancora più probabilmente destinata a fallire”, conclude il rapporto.
Che fare dunque se non sarà la green economy capitalista a salvarci, ne a garantirci nel breve periodo lavoro, salute, sicurezza e pace sociale? Il prossimo governo, dopo i disastri compiuti sino ad oggi, come primo atto dichiari l’emergenza climatica e lavori da subito per scrivere con l’aiuto dei movimenti per la giustizia ambientale e sociale una manovra economica che investa finalmente sulla riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica, per rimettere insieme lavoro, salute e territorio. Ma a prescindere da quanto possa avvenire in questa fase politica, caratterizzata da gruppi dirigenti che sembrano non avere la forza, ne le conoscenze, ne il coraggio di pensare ad un’inversione di rotta, si deve lavorare per costruire un’alleanza sociale stabile e strutturata insieme a tutti quei soggetti e realtà che hanno compreso come la giustizia ambientale ed ecologica sia l’unica via per garantire la giustizia e la sicurezza sociale, contrastando allo stesso tempo la minaccia dei cambiamenti climatici e le catastrofi provocate dalla crisi ecologica.
Giuseppe De Marzo – Coordinatore Rete Numeri Pari | Responsabile Politiche Sociali Libera
www.numeripari.org