Gigi Malabarba – 23 Novembre 2019
I sette anni di Fuorimercato, nata dall’incontro tra la fabbrica recuperata RiMaflow e SOS Rosarno e oggi rete tra diverse realtà urbane e rurali, dimostra che i percorsi dell’autogestione vanno sempre molto oltre la creazione di mercati alternativi. Percorsi in cui mutualismo, conflitto, comunità sono concetti da reinventare ogni giorno. Percorsi, secondo Gigi Malabarba, che alimentano quella ricerca – diffusa in ogni angolo del pianeta in tante forme diverse – di spazi sociali pubblici, “piazze comuni” nelle quali riconoscersi e darsi i propri strumenti per uscire dal dominio del mercato
Fuorimercato – nata nel 2012 dall’incontro tra la fabbrica recuperata RiMaflow di Trezzano e SOS Rosarno per la distribuzione diretta dei prodotti agricoli e oggi rete tra diverse realtà urbane e rurali, vuole costituire una realtà economica concreta, ossia praticabile sia dal punto di vista ecologico che sociale. FM organizza l’apporto quanto più ampio possibile di abilità e competenze in ogni campo coerenti con la concezione che la ispira, riconoscendo un valore economico ad ognuna di esse tramite remunerazione o scambio. FM non intende rappresentare un mercato alternativo, ma un’alternativa al mercato, dove connettere la produzione, la riproduzione e la circolazione di un’economia altra, tendenzialmente alternativa al capitalismo.
Siamo partiti dalla soddisfazione dei bisogni fondamentali individuali e collettivi conculcati dalle politiche liberiste per andare oltre la rete di sostegno o la lotta per il semplice ripristino di un welfare in ogni caso insoddisfacente. La tessitura di rapporti con l’insieme delle realtà di consumo critico per affrontare le esigenze di distribuzione di “prodotti ad alto valore sociale aggiunto” è centrale. Non si tratta solo di essere rispettosi della salute e dell’ambiente, attraverso produzioni biologiche o a “garanzia partecipata”, ma anche rispettosi dei diritti di chi lavora, dalla produzione alla distribuzione finale.
Ciò significa quindi creare posti di lavoro e lavoro “buono”. A RiMaflow siamo passati – dopo quasi sette anni di occupazione per raggiungere la regolarizzazione attuale – da quindici-venti lavoratori e lavoratrici iniziali a circa cento tra cooperativisti e artigiani, mentre attorno si sta articolando una Rete di economia sociale e popolare, urbana e rurale che ne organizza altrettanti, tra cooperative agricole e Csa, cucine popolari e anche ambiti di produzione culturale. In Puglia, per non fare che un altro esempio della Rete, nella filiera autogestita del pomodoro “sfrutta zero“, ogni nuovo anno sono in crescita opportunità di lavoro sia per migranti che per nativi. In generale nelle campagne si registra il maggior numero di esempi di riappropriazione del lavoro.
Nell’evoluzione del dibattito abbiamo iniziato ad affrontare anche percorsi di “costruzione di comunità“. Si è trattato in questo caso di affiancare ai Gruppi di acquisto (i tradizionali Gas) i Gruppi di offerta (reti di produttori agricoli o laboratori artigianali o competenze e saperi), pianificando collettivamente l’insieme di una filiera economica popolare: dalla produzione allo stoccaggio/logistica, al lavoro di trasformazione dei prodotti e di costruzione di strumenti o pezzi di ricambio, alla distribuzione diretta. Ossia un campo economico “fuorimercato”, in cui è tutta la comunità che si assume la responsabilità di gestire la sfera di sussistenza, con la centralità del cibo.
Ulteriore evoluzione rappresentano i progetti di “cucine popolari” in collegamento con tutta la filiera produttiva autogestita: qui si cerca di intervenire sul versante della sussistenza e del diritto all’alimentazione e con cibo sano per tutti, rompendo il meccanismo dominante che consente solo ai redditi alti di comprare biologico e più in generale a chi ha un reddito di poter comprare tout court. Si tratta cioè di rispondere anche a una esigenza di solidarietà di classe dentro la crisi, partendo dai bisogni elementari della popolazione, attraverso appunto cucine popolari ma anche ambulatori autogestiti con distribuzione di medicinali gratuiti, occupazioni per esigenze abitative, sostegni all’accoglienza dei migranti, ecc.
La scelta dell’ambito alimentare non è quindi casuale, ma rappresenta il perno di un’economia altra e di nuove relazioni sociali. Da qui l’esigenza di partire dalle esperienze più avanzate nella produzione contadina e dal consumo critico per sviluppare i successivi passi in direzione comunitaria.
Anche l’aspetto spesso controverso di fornire una logistica autogestita alternativa alla GDO, che a prima vista sembrerebbe contrastare con il concetto di sovranità alimentare (ossia il soddisfacimento pieno di tutti i bisogni alimentari nel proprio territorio, salvaguardando piccola produzione contadina e ambiente, secondo il paradigma ormai consolidato coniato vent’anni fa dalla rete mondiale della Via Campesina), in realtà nel nostro caso tende ad affrontare di petto la questione, prevedendo la sostenibilità di percorsi per arrivare a superare le monoculture imposte dalle multinazionali. Per consentire il ritorno della biodiversità e dell’insieme delle produzioni nei territori vanno sostenute in una sorta di “km 0 politico” quelle realtà che condividono questo obiettivo. Pensare di sostituire parte della produzione agrumicola con orticoltura e cereali è nei progetti di Sos Rosarno. Distribuire nel Centro-Nord Italia le arance è in ultima analisi la condizione per rilanciare nel giro di qualche anno un’agricoltura di prossimità nella Piana di Gioia Tauro in modo non velleitario ma realistico.
Pur se disperse e frammentate, varie e da valorizzare sono le resistenze al potere e all’ordine capitalistico esistenti oggi in Italia. Per arrivare a un’organizzazione economica delle resistenze che puntano alla sovversione dei rapporti di potere non si può funzionare se non generando lotte più complessive antisistema. È importante far vedere percorsi possibili ora, “custodire” beni comuni e diffondere stili di vita che non potranno che essere in tensione col potere esistente: è il concetto di mutualismo conflittuale adottato fin dall’inizio da RiMaflow. Una cooperativa autogestita che rompe con il meccanismo della concorrenza al ribasso è in permanente conflitto col sistema dominante e rappresenta una ulteriore trincea di resistenza, indispensabile dentro la frantumazione sociale che viviamo.
La stessa esistenza di una fabbrica recuperata è possibile solo se sorgerà una rete di realtà economiche popolari e solidali e se la crescita del conflitto sociale più ampio determinerà il superamento della passività e del conservatorismo dominanti nella società. Tanto più che solo grandi movimenti di lotta potranno imporre dal basso misure legislative ad esempio in termini di espropriazione o comunque di garanzia di ciò che si può autogestire dal basso in forma partecipata. Rispetto ai dibattiti storici tra i sostenitori del mutualismo riformista e quelli della conflittualità sociale e sindacale di fine Ottocento, così come tra le correnti marxiste favorevoli alla presa del potere statuale e quelle libertarie di federazione di realtà economico-sociali che si sottraggono al sistema, Fuorimercato già oggi rappresenta – in piccolo, per carità, in piccolo! – embrionali esperienze concrete di autorganizzazione in cui si combinano mutualismo e conflitto sociale, battaglie politiche e comunitarismo. Non si tratta, a mio avviso, di eclettismo ideologico, ma di mutuo aiuto tra realtà resistenti differenti che si riconoscono reciprocamente e che intrecciano anche nella medesima sperimentazione strumentazioni differenti.
Per riprendere la realtà di RiMaflow. La tenuta per anni dell’occupazione della fabbrica e la sua rimessa in funzione non sarebbe stata concretamente possibile senza che questa realtà potesse disporre al proprio interno di strumentazioni sindacali e legali, così come di competenze tecnico-professionali e di modalità politiche di autogestione.
In fondo è ciò che già esiste, in modo spesso discontinuo, in molti spazi sociali, al cui interno si ritrovano strumentazioni sindacali, esperienze di lavoro in comune (co-working), servizi di assistenza e autorganizzazione (legale, migranti, lavoro, fiscale, antipatriarcale e di genere), distribuzione di prodotti, ma anche “casse comuni” di solidarietà. Cioè potenzialmente può esistere una rete sociale ed economica, politica e “sindacale”, che allude a un’organizzazione come il Movimento Sem Terra del Brasile, il più grande movimento sociale organizzato dell’America latina, che da oltre trent’anni combina strumenti di lotta sindacali e legali, organizzazione economica cooperativistica, rivendicazione politica di cambiamento legislativo e istituzionale, costruzione di autorganizzazione comunitaria in tutti i campi (abitativa, educativa, sanitaria, ecc.). E in Europa è quello che fa il SOC-SAT andaluso. Schematicamente, tre ulteriori considerazioni. La prima è che la fine del ‘movimento operaio’ novecentesco ha lasciato un vuoto su cui i padroni del mondo hanno via via travolto tutte le più importanti conquiste delle classi subalterne. Pensare di ricostruire quell’impalcatura politico-sociale è francamente illusorio. Occorre guardare con attenzione alle nuove modalità di ricomposizione che si stanno dando in forme certo differenti secondo le varie latitudini, ma con dei tratti comuni. Da Piazza Tahrir al 15M, da Occupy Wall Street a Gezy Park, alle Nuites Debout e ai Gilets jaunes, alle modalità di espressione del movimento femminista in tanti paesi così come di Fridays for future assistiamo a una ricerca quasi spasmodica di dare espressione a quel “99 per cento” che non si ritrova quasi mai nelle forme tradizionali di rappresentanza.
È – credo – la ricerca di uno “spazio sociale” pubblico, fatto di “piazze comuni” in cui riconoscersi e darsi i propri strumenti di lotta. Dove tutte le soggettività politiche – in primo luogo i partiti – soffrono o sono respinte, ma anche dove le aggregazioni sociali e sindacali devono sottoporsi a livelli decisionali nuovi: non si può contrapporre artificiosamente l’organizzazione separata alla disorganizzazione inconcludente; è l’autorganizzazione la risposta adeguata. Se e quali nuove forme organizzative più o meno stabili nasceranno, come accadde per il movimento operaio e le sue varie articolazioni politiche e ideologiche alla fine dell’Ottocento, è difficile immaginarlo oggi, ma bisogna disporsi in tale direzione.
La seconda considerazione si riferisce alle forme della “controsocietà”, in cui è necessario affrontare l’aspetto economico della sussistenza dei settori popolari e di un proletariato meticcio che stenta a ricomporsi sotto i colpi delle politiche razziste e di segregazione. Forse occorre riflettere sull’attuale prevalente modalità di esistenza degli spazi sociali (intesi in senso lato) come luoghi essenzialmente di aggregazione politica e iniziare a progettare almeno una parte di questi in direzione della costruzione di attività economiche autogestite. Ciò significa riappropriazione di fabbriche o di terre, comunque di luoghi – compresi i beni sequestrati alle mafie – per dar vita a “iniziative economiche fuorimercato”. È l’occasione per proporre nuove reti di economia sociale e solidale, in grado di andare oltre la spinta etica per indirizzarsi sempre più sotto il segno del popolare e del politico anticapitalistico: non per declamazione, ma per pratica concreta. Le esperienze di neomunicipalismo e le reti per i beni comuni, che un certo interesse stanno suscitando, si devono certamente arricchire di questo contenuto.
La terza è l’importanza del fattore “ambiente” e del fattore “genere”. Una sottovalutazione della prospettiva eco socialista (o come la si voglia chiamare) di fronte alla catastrofe imminente o del femminismo e delle differenze sessuali nella costruzione di embrioni di economia e di società alternativa equivale a non costruire alcuna alternativa all’attuale società. Se bisogna ricominciare, bisogna ricominciare col piede giusto, senza rimandare a un futuro non precisato l’affrontare questi problemi. È lo stesso concetto di prefigurazione di società con cui cerchiamo di dimostrare che una fabbrica e una fattoria senza padroni è possibile che ci fa dire che dove l’ecologia e l’antipatriarcato non sono di casa questa non sarà mai la nostra casa.
Volendo sintetizzare i concetti finora espressi, Fuorimercato è una rete sociale di mutuo soccorso, finalizzata alla costruzione dal basso di istituzioni economiche in rottura con le leggi del mercato. Costituita quindi da esperienze sociali e politiche autonome di autorganizzazione, che esercitano forme di appropriazione collettiva in contrapposizione alle forme di dominio capitalistico. Lungi dall’aver già realizzato pienamente questi obiettivi in nessuna realtà, le occupazioni tuttavia esprimono bene questa ipotesi. Ancor più significativamente quando riguardano la sfera del lavoro e della produzione, come l’occupazione di fabbriche o di terre e la loro rimessa in funzione in autogestione. RiMaflow e Mondeggi Bene Comune, così come le imprese recuperate argentine o gli insediamenti del MST brasiliano, alludono a questo: la trasformazione delle relazioni sociali di produzione e la messa al centro dell’interesse collettivo.
Poter dimostrare che il lavoratore e la lavoratrice della città o della campagna può essere in grado di esercitare in forma democratica un proprio potere e la prefigurazione di un’alternativa di società nel mentre si affrontano problemi immediati (di reddito e/o di difesa di beni comuni) sono fondamentali. Nel nostro mondo si è trascurata l’importanza – specie in situazione di crisi, come oggi, dove molti sbocchi di lavoro, di reddito, di welfare vengono meno – di avviare forme di apprendistato all’autogoverno praticabili e socialmente legittimabili anche in condizioni di conflitto sociale certamente non rivoluzionarie…
Valutando le esperienze argentine dei piqueteros e delle fabbriche recuperate, dove a occupare le strade e le fabbriche sono stati lavoratori e lavoratrici spesso senza alcuna esperienza alle spalle, Miguel Mazzeo, un ricercatore argentino, parla di “potere popolare come fine e come prassi, come percorso e come obiettivo dell’emancipazione in costruzione”; cioè non solo quindi in una “prospettiva ‘utilitarista’ da parte di un’avanguardia rivoluzionaria di quadri”.
Un potere popolare, quindi, che si costruisce dal basso, dalla fabbrica o dalla comunità, dalla produzione o dal territorio, che aspira a togliere l’egemonia a quelli in alto, al loro Stato e alle loro Leggi. Un processo costituente di nuove istituzioni che sorgano dal movimento in sostituzione di quelle esistenti. Cioè a quelle del potere costituito che, quando però tocchi interessi forti e crei esempi pericolosi, ossia quando “dai fastidio”, reagisce. Per cui ti devi difendere innanzi tutto creando un consenso sociale nel territorio e essendo parte del più generale conflitto sociale e di classe; moltiplicando e collegando tra loro esperienze di autogestione. Anche dal punto di vista materiale, economico e non solo politico. E anche garantendo una “protezione” di fronte agli attacchi burocratico-ammnistrativi e repressivi. È la stessa perdita di riferimenti per le sconfitte dei progetti alternativi, tutti, che rende ancor più necessario non solo linguaggi diversi, tempi di maturazione diversi, ma anche una centralità delle pratiche con valenza di alternativa economico-sociale immediata: reti territoriali, orizzontali, “fuorimercato”, che costituiscano nel concreto – e non solo nei discorsi – luoghi potenziali di controegemonia.
Anche le imprese recuperate argentine, in un contesto industriale capitalistico rappresentano un punto di riferimento per analoghe sperimentazioni di riappropriazione dei mezzi di produzione in vari paesi. Se da un lato, fondandosi sul “bisogno” di reddito e sul fondamentale recupero dei macchinari, dimostrano che lavorare senza padroni e in autogestione è possibile, dall’altro restano spesso su un terreno di ‘conservazione’ in qualche modo “obbligata” nel tipo di produzione e soprattutto nel rapporto col Mercato, dove pende costantemente la spada di Damocle della concorrenza. Un passo in avanti necessario nei percorsi di riappropriazione del lavoro ad esempio nel settore industriale è quello della conversione ecologica della produzione. E non diciamo solo nelle nostre sperimentazioni. Non è possibile affrontare la catastrofe ambientale dell’ex Ilva senza misure radicali. Nel nostro incontro nazionale in Puglia a fine settembre abbiamo condiviso con Giustizia per Taranto la battaglia per la chiusura di quello stabilimento e per un riassorbimento dei lavoratori nelle pluriennali attività di bonifica: se dovessimo bonificare i siti industriali dismessi occorrerebbero 200mila persone; che dovrebbero essere sommate a quelle decine di migliaia necessarie al riassetto idrogeologico del paese. E com’è noto i costi sarebbero anche inferiori di quelli pagati – anche in termini di salute e di vite umane – delle catastrofi ambientali che si producono.
Come far avanzare e su quali terreni autonomia economica e potere popolare in società capitalistiche avanzate? L’isolamento in micro-realtà o “micropoteri” locali o viene tollerata in quanto marginale o è destinata con ogni probabilità a una fine certa oppure al suo riassorbimento nell’ambito del sistema. Quindi queste sperimentazioni devono darsi forme di resistenza organizzate. Margini certamente maggiori esistono – come abbiamo cercato di spiegare – relativamente ai fondamentali dell’esistenza, ossia beni comuni come l’acqua, il cibo, la terra.
Per noi costruire Fuorimercato come organizzazione nazionale vuole essere un contributo in questa direzione. Lavorando cioè sul pezzo scoperto del movimento, o meglio in direzione di costruire su questa esigenza uno “spazio” e anche un movimento, senza staccarsi mai dalle proprie radici e dando costantemente risposte alle domande della propria comunità.
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Testo dell’interventodi Gigi Malabarba, di RiMaflow – Fuorimercato Milano, a un convegno organizzato dalla associazione Laudato si’.