Riflessione su Roma in tre atti

Mercoledì 11 dicembre 2019 | ore 18:30 | Presso Scup – Sport e cultura popolare
Via della Stazione Tuscolana 82-84

Una “riflessione su Roma in 3 atti” l’abbiamo voluta chiamare.

Perché tre sono i libri che presenteremo e che indagano diversi aspetti di una città che percepiamo “allo sbando”, profondamente in crisi, sulla quale soffiano i venti della deriva razzista, reazionaria e populista, una città senza orizzonti futuri visibili a un primo sguardo.

Eppure tante, tantissime, sono le esperienze politiche, sociali e culturali che nel corso degli anni hanno saputo riscrivere lo spazio urbano, che hanno sottratto al degrado dell’abbandono molti spazi, che hanno saputo riconnettere il tessuto sociale con pratiche di mutualismo e solidarietà, che producono cultura.

Esiste ancora un cuore pulsante di questa metropoli in asfissia. Una costellazione che illumina quartieri e territori dal centro alla periferia, che ha permesso alla città, nonostante la morsa della speculazione e della criminalità organizzata, di continuare a vivere.

A partire dal contributo letterario, di pensiero e di esperienza, dei tre libri che caratterizzeranno il breve ciclo di presentazioni, vogliamo riprendere un ragionamento più ampio e complessivo che non ci permetta solo di resistere ma anche di immaginare quegli orizzonti futuri che ci stanno negando, perché, prendendo a prestito una frase di Wu Ming, ” ci sentiamo parte di una comunità universale che supera i confini e congiunge le epoche, la comunità di coloro che prendono d’assalto il cielo”. Questa capacità di immaginare la città che vogliamo, la vita che vogliamo, il mondo che desideriamo, non la vogliamo perdere. Discutiamone insieme!

Atto primo: “Città fai-da-te” di Carlo Cellamare

C’è una domanda cruciale che attraversa il libro “Città fai-da-te”, illuminandone il percorso di ricerca come un faro nella notte: chi produce lo spazio urbano oggi, e in che modo e in che misura le pratiche sociali possono trasformarlo dall’interno sottraendolo a usi predefiniti e sempre più dominati dalle logiche privatistiche ed estrattive del neoliberismo?

La ricerca di Carlo Cellamare muove da un importante presupposto teorico, che costituisce un’apertura di orizzonte sul valore trasformativo delle pratiche sociali: le città, ovvero le forme dell’abitare, sono state storicamente prodotte dai saperi, dalla creatività e dall’intelligenza di chi viveva e operava nei territori. Erano un’opera collettiva plasmata nel tempo e quotidianamente dai suoi abitanti. Quella della modernità invece, e più ancora della postmodernità globalizzata, è una città-prodotto, un aggregato di spazi predefiniti da logiche e interessi esogeni rispetto al territorio. Si è compiuto infatti un vero e proprio esproprio di capacità progettuale e tecnica, dapprima con la pianificazione professionalizzata e top-down dell’autorità pubblica, quindi con la trasformazione urbana standardizzata e governata dalle logiche del profitto e dalla rendita finanziaria. Ma le pratiche sociali, nonostante la pressione neoliberista, non sono venute meno, e in un contesto urbano sempre più mercificato e svuotato di relazioni, polarizzato socialmente da crisi economica e sfaldamento del welfare, s’intensifica la trama di esperienze e pratiche di autorganizzazione volte a costruire nuove relazioni tra persone, così come nuove relazioni con il territorio e le sue risorse, e nuove culture dei diritti e del “pubblico” – anche a partire da azioni di appropriazione illegale. In certi casi queste pratiche esprimono progettualità latenti, in altri aspirano consapevolmente a ridisegnare dall’interno, anche in modo conflittuale, le città nel loro complesso.

“Le occupazioni a scopo abitativo sono state forse la madre di tante altre esperienze, di occupazione, di autocostruzione, di autoproduzione di servizi, di autogestione di spazi verdi e spazi pubblici ecc., che si sono moltiplicate e si sono diversificate nella città: dalle aree verdi autogestite agli orti urbani, dalle fabbriche recuperate ai luoghi di produzione culturale occupati e autogestiti, dai centri sociali che si trasformano in ‘univesità’ alle ‘libere repubbliche’, dalle biblioteche autogestite alle palestre e ai servizi sportivi autorganizzati, dalle ludoteche attivate da gruppi di madri che occupano spazi abbandonati ai mercati rionali sottoutilizzati trasformati in centri polifunzionali” (p. 36).

Parliamo però di pratiche e soggettività molto diversificati che sono immersi in processi caratterizzati dalla erosione della protezione e delle funzioni del pubblico, e rischiano perciò di essere “sussunte” in quei processi governati da un capitalismo fondato sempre più su valori immateriali, capace di “mettere al lavoro” la cooperazione sociale, catturandone il valore prodotto. Perché l’arretramento del pubblico allarga le maglie sia al protagonismo sociale sia agli interessi privati, e ne consegue una possibile ambiguità delle appropriazioni dei beni, così come delle forme di sussidiarietà suppletiva rispetto alle carenze istituzionali.

Non vale perciò la semplificazione di categorie e norme che si concentrano su valori formali delle pratiche stesse o dei beni con cui si relazionano, categorie come “innovazione sociale” o “beni comuni”. Occorre interrogare le pratiche di autorganizzazione a partire dai processi e contesti in cui si inseriscono, e soprattutto dalle progettualità che esprimono, esplicitamente o implicitamente. Per questo Callamare s’immerge nella dimensione che più le caratterizza, nel variegato agire quotidiano della “società istituente”, per conoscerla da vicino e coglierne le valenze generali, i nessi tra le soggettività e la loro implicita trama progettuale.

E vi si immerge in un contesto, quello romano, che rappresenta da questo punto di vista un laboratorio straordinario proprio in ragione della storica e strutturale latitanza della funzione pubblica, che ha aperto ampi margini sia a forme collusive di governo e appropriazione privatistica, sia al protagonismo di forme molto diversificate di autorganizzazione e autogoverno. Interrogare il contesto romano come fa Cellamare significa far emergere il potenziale trasformativo e la progettualità immanente dell’autorganizzazione, e il valore complessivo di questa complessa contesa per la riappropriazione dal basso dello spazio urbano.

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