La categoria per la quale è cresciuto di più il pericolo di sentirsi marginalizzati è proprio quella dei salariati. Le cause: precarietà e stipendi bassi. La soluzione: più istruzione
L’unico strumento veramente efficace per uscire dalla povertà è il lavoro. È quello che, giustamente, ci si ripete davanti alle richieste di assistenzialismo e ciò che si risponde a chi dice di avere sconfitto la povertà con un sussidio. Il problema è che, in Italia, questo assunto vale un po’ meno, e ciò potrebbe spiegare molti dei nostri problemi.
Il nostro Paese è ottavo in Europa per numero di persone che sono o rischiano di finire in povertà, intendendo come poveri coloro il cui reddito complessivo (inclusi eventuali sussidi) è inferiore al 60% della mediana nazionale. In Italia, si trova in questa situazione il 19,1% delle persone. La media europea è del 16,4%. Si arriva molto oltre il 20% nei Paesi Baltici, al 20,2% in Spagna, mentre in Francia per esempio si scende all’11,5%.
La particolarità è che questo ottavo posto diventa il secondo, a pari merito con la Spagna, se si prendono in considerazione i lavoratori dipendenti. E in realtà sarebbe un primo posto, se consideriamo che in Lussemburgo, il Paese sul punto più alto del podio, avere un reddito che sia solo il 60% di quello mediano, già altissimo, è piuttosto diffuso e non implica per forza trovarsi in condizione di indigenza.
Ancora più peculiare, il fatto che invece diventiamo tra i Paesi meno poveri se si parla di coloro che un lavoro non ce l’hanno.
Siamo 20esimi per rischio povertà tra i disoccupati, 22esimi per quello tra i pensionati, quindicesimi, comunque sotto la media UE, per quanto riguarda gli altri inattivi che un impiego non lo cercano neanche.
Intendiamoci, è ovvio che in ogni caso parliamo di percentuali decisamente più alte di quelle che vediamo tra chi lavora. Il rischio di povertà tra i disoccupati è del 45,9%, contro l’11% dei dipendenti. Tuttavia, altrove il gap è molto maggiore. In Germania, per esempio, è del 61%, un record europeo, mentre con il 34,9% quello italiano è il quintultimo.
Dopo il solito Lussemburgo siamo anche il Paese con la minore differenza tra il rischio di povertà tra i lavoratori dipendenti e quello dei pensionati, solo l’1%. Mentre in media nella UE si arriva al 7,5%, in Germania al 10,3% e nei Paesi Baltici sopra il 30%.
Insomma, se in Germania passando dalla disoccupazione al lavoro il rischio di diventare poveri cala di più di otto volte, dal 69,4% all’8,4%, e in Svezia di più di dieci, dal 57,8% al 5,5%, in Italia scende invece solo di quattro volte.
E se lo stesso rischio, sempre in Germania, raddoppia transitando dall’occupazione alla pensione, e quasi triplica in Svezia, mentre sale solo dell’1% nella Penisola, forse possiamo anche comprendere alcuni dei motivi per cui il nostro tasso d’occupazione sia così basso rispetto a questi Paesi, in cui è ai massimi in Europa, sia perché il dibattito economico giri intorno quasi solo a come poter fare andare tutti prima in pensione.
Gli ultimi dati sul lavoro ci dicono che si è raggiunto un record nel numero di precari (i lavoratori a termine) nel nostro Paese, 3 milioni 123 mila, un milione in più di 10 anni fa.
Già sapevamo inoltre che siamo il Paese in cui i salari stanno aumentando meno, in linea con la crescita asfittica del PIL.
È chiaro che, per esempio, una donna con figli che non lavora e che deve decidere se provare a impiegarsi magari per un part time, vista la scarsità di welfare per i minori (in termini di asili, detrazioni, ecc) e il salario particolarmente basso dei nuovi assunti, potrebbe trovare il fatto di mettersi a cercare lavoro meno conveniente che una donna europea. Questo perché potrebbe rimanere a rischio povertà, con in più la responsabilità di un impiego da portare avanti.
Questa situazione è piuttosto strutturale da anni, ma rispetto a 15 anni fa la probabilità di diventare poveri è cresciuta un po’ di più tra i lavoratori dipendenti che nella popolazione totale.
E come in altri ambiti le cose sono peggiorate soprattutto per i lavoratori dipendenti con più di 25 anni ma meno di 55, e in particolare, tra questi, per quelli che hanno meno di 30 anni.
Per questi ultimi il rischio povertà è passato da un minimo del 7,6% nel 2010 al 12,2% del 2018, avvicinandosi a quello dei più giovani e allontanandosi sempre più da quello degli over 55.
Diciamolo chiaramente, non è certo il rischio di povertà per i disoccupati e gli inattivi a essere troppo basso, anzi, dovrebbe diminuire, ma è quello per i lavoratori ad essere troppo elevato, così da non rendere il lavoro quello strumento di emancipazione che dovrebbe essere.
E che forse è invece sempre più l’istruzione.
Si tratta di un dato positivo da sottolineare. Se trovare lavoro mette meno al riparo dalla povertà di un tempo, studiare invece paga più oggi di prima.
Nel 2008 il rischio di povertà tra i laureati è sì cresciuto del 2,7%, ma molto meno di quello dei diplomati, per i quali è passato dal 12,7% al 17,3%, o tra chi ha licenza media ed elementare.
E la stessa cosa è accaduta un po’ ovunque.
Si può anche dire viceversa che non studiare costa sempre di più.
Forse è proprio da questo, dall’istruzione, che si potrebbe ripartire in un Paese che continua ad essere al secondo posto tra quelli con meno laureati tra i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro.
https://www.linkiesta.it/it/article/2020/02/05/rischio-poverta-italia-statistiche/45311/?fbclid=IwAR3oAiOK_Ggfb1buYSX87iCL_JVdmYkzWMV5jE63sxtvOY52xnIWsyQf6C0