Dal 2007 le Nazioni Unite hanno istituito la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale. La ricorrenza ha come obiettivo quello di rivolgere l’attenzione della comunità internazionale verso la riduzione delle disuguaglianze sociali, la promozione dell’uguaglianza di genere e dei diritti dei popoli indigeni e dei migranti, in modo da costruire delle società basate sulla piena occupazione e sull’accesso al benessere sociale per tutti. Il messaggio chiave è che la giustizia sociale si ottiene rimuovendo tutte le barriere di genere, età, razza, etnia, religione e cultura.
Ma a che punto siamo?
Viviamo in un mondo in cui l’1% più ricco della popolazione, sotto il profilo patrimoniale, detiene più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone; dove il patrimonio delle 22 persone più facoltose è superiore alla ricchezza di tutte le donne africane; le donne a livello globale impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e servizi tecnologici. Nel mondo il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico della cura di familiari come anziani, bambini, disabili. Solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione.
In Italia, il 10% più ricco possiede oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali. L’anno scorso inoltre, la quota di ricchezza in possesso dell’1% più ricco degli italiani superava quanto detenuto dal 70% più povero, sotto il profilo patrimoniale. Al 2018, l’11,1% delle donne, per prendersi cura dei figli, non ha mai avuto un impiego: un dato fortemente superiore alla media europea del 3,7% e una quota superiore di oltre 3 volte a quella degli uomini. In generale l’edificio sociale ha un pavimento e soffitto “appiccicosi”: 1/3 dei figli di genitori più poveri, sotto il profilo patrimoniale, è destinato a rimanere fermo al piano più basso (quello in cui si colloca il 20% più povero della popolazione), mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco, manterrebbe una posizione apicale. Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese e il 13% degli under 29 italiani versa in condizione di povertà lavorativa.
Siamo ormai consapevoli, così come denunciano e confermano da molti anni Università, Centri di Ricerca, Agenzie delle NU, che la giustizia sociale dipende strettamente dalla giustizia ambientale ed ecologica. È proprio la distruzione dell’ambiente e degli ecosistemi la principale causa dell’aumento delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali nel mondo ma purtroppo le misure messe in campo sono del tutto insufficienti per contrastare la crisi ecologica e non si fa nulla per riconvertire la produzione e l’economia in base ai limiti del pianeta. Anzi, nonostante impegni e conferenze mondiali la concentrazione di CO2 in atmosfera continua a crescere e mancano investimenti e leggi concrete per adattarci e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, esponendo la popolazione della Terra a un rischio enorme. Troppo forti gli interessi delle grandi imprese e multinazionali inquinanti, dell’estrazione di idrocarburi, della finanza che specula sulla crisi ecologica e su quella economica, mentre continuano ad aumentare le vittime.
Secondo l’IPCC 3,2 miliardi di persone sono colpite dalla siccità causata dai cambiamenti climatici conseguenza di una governance che ha finanziarizzato la crisi ecologica speculando a spese dei paesi e delle popolazioni più fragili e con meno mezzi economici per difendersi e adattarsi ai cambiamenti di cui non sono responsabili, o solo in minima parte.
Solo nel 2019 sono stati 7 milioni i profughi ambientali causati dall’aumento degli eventi meteorologici estremi. Nel nostro paese sono aumentati del 68% e sono costati decine di miliardi. L’inquinamento dell’aria, il Bik Killer, origina altre enormi ingiustizie ambientali, colpendo nella sola Europa 500 mila persone e nel nostro paese è la prima causa di morte: secondo il rapporto Who dell’OMS sono 84200 i morti in Italia per inquinamento dell’aria e per le conseguenze che genera sulla salute.
Per evitare la catastrofe dobbiamo uscire da questo modello ormai insostenibile. I diritti umani si garantiscono in maniera tangibile solo se prima riconosciamo e difendiamo i diritti della natura. La nostra vita dipende dalla continuità e dall’equilibrio del resto della vita intorno a noi. Equità sociale e giustizia distributiva nell’accesso alle risorse naturali consentirebbero di raggiungere un modello di società sostenibile. Adattarsi e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici significa in concreto cambiare modello produttivo, estrattivo ed industriale, investendo sulla riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica.
È questa l’unica strada che ci consente allo stesso tempo di rimettere insieme il diritto al lavoro con il diritto alla salute. La crisi globale nel campo dei diritti umani è conseguenza diretta dell’incapacità del modello economico di garantire l’accesso alla risorse. La risposta può trovarsi solo in forme di democrazia partecipativa e comunitaria, partendo da specificità locali che intrecciano questioni apparentemente separate per arrivare ad una visione d’insieme capace di agire anche sul piano globale.
Mettere insieme una “geografia della speranza”, un pensiero lungo con al centro la giustizia ambientale e i movimenti che la perseguono appare l’unico modo per uscire da una crisi che continua a schiacciare con forza i territori feriti, i diritti umani, l’equità e i diritti della Natura.