La Lombardia è la regione più colpita da coronavirus. Mancano molti beni sanitari, soprattutto i ventilatori polmonari. Non è un caso, ma il frutto di decisioni che vengono da lontano . In Italia vi sono 231 aziende produttrici di armi e munizioni e una sola azienda che produce ventilatori artificiali
Giorgio Beretta- 19 Marzo 2020
Mancano le mascherine sanitarie. Mancano i camici e le protezioni per i medici. Mancano i tamponi per fare i test. Ma mancano soprattutto i ventilatori polmonari per i reparti di terapia intensiva. E’ l’allarme – un vero urlo di dolore – che i medici e i governatori delle regioni italiane, dalla Lombardia alle Marche, dal Veneto alla Puglia, ripetono da giorni. Senza questi respiratori artificiali inutile pensare di adibire negli ospedali nuove stanze di terapia intensiva: questi macchinari sono essenziali per salvare le persone colpite da coronavirus (covid-19) nella forma più grave. Assolutamente necessari, indispensabili. Ma carenti.
Una sola azienda in tutta Italia
Nei giorni scorsi i giornali hanno rivelato che una sola azienda in Italia produce ventilatori polmonari: la Siare Engineering di Valsamoggia, un paesino tra Maranello e Bologna. “Fondata nel 1974 a Bologna in un contesto strategico, fortemente produttivo come quello dell’Emilia Romagna” – si legge sul sito dell’azienda – “la Siare è leader nel campo dell’automazione e della meccanica di alta precisione”. Una piccola azienda, che Google nemmeno segnala nella mappa (occorre zoomare per trovarla), con soli 35 dipendenti che produce un fatturato di 11 milioni all’anno. “In Italia abbiamo sempre lavorato pochissimo, con oltre il 90% della produzione destinata ai mercati esteri” – afferma il fondatore e presidente della Siare, Giuseppe Preziosa.
Eppure è un’azienda di interesse strategico, vitale. Ce ne accorgiamo in questi giorni in cui il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha dovuto richiedere alla Cina un migliaio di ventilatori polmonari e il governatore della Lombardia, Attilio Fontana avrebbe “fatto miracoli” anche solo per trovarne una quarantina.
Il “modello” della sanità lombarda
La Lombardia è la regione che è più colpita dall’epidemia del coronavirus tanto che ieri all’ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo erano finiti i posti in terapia intensiva e già nei giorni scorsi due pazienti sessantenni di Bergamo, in gravi condizioni respiratorie, sono stati trasferiti a Palermo con un aereo militare per mancanza di posti negli ospedali della Lombardia. Non sono un esperto di sanità, ma per capire le cause di questa carenza di posti-letto, ho trovato molto illuminanti le osservazioni di Vittorio Agnoletto sul “modello di sanità della Regione Lombardia”. Agnoletto denuncia le gravi responsabilità dell’amministrazione regionale nella gestione dell’epidemia da coronavirus: “Un sistema sanitario – scrive Agnoletto – concentrato solo sulla cura e sul profitto, che ha trasformato la salute in una merce, che ignora la prevenzione perché non produce guadagni per le lobby private del settore”.
Questo è stato reso possibile perchè – come evidenzia Maria Elisa Sartor in un ampio studio – “in Lombardia, con il succedersi di governi di orientamento politico-partitico di centro-destra, è avvenuto un considerevole sbilanciamento a favore del privato all’interno del Servizio Sanitario regionale Lombardo (SSL)”. In un articolo pubblicato nei giorni scorsi, a fronte dell’emergenza coronavirus, la dottoressa Sartor ribadisce che “niente è in grado di sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia”.
Le aziende italiane di “armi comuni”
Tra le piccole medie imprese le cui produzioni sono dirette principalmente ai mercati esteri vi sono quelle che producono le cosiddette “armi comuni” (pistole, revolver, fucili, carabine, ecc.). Secondo i dati forniti dal Banco Nazionale di Prova (BNP), le imprese produttrici di “armi comuni” in Italia sono 107, di cui la maggior parte ha la sede produttiva in Val Trompia (Brescia) mentre i produttori di munizioni sono 124, compresi i produttori di componenti. Va comunque detto che le principali aziende del settore (come Beretta, Tanfoglio, Fabarm, ecc.) non producono solo “armi comuni”, ma anche armi di tipo militare. Nel 2017 in Italia sono state prodotte “armi comuni” per poco più di 345 milioni di euro e munizioni per quasi 236 milioni di euro: nell’insieme una produzione per oltre 581 milioni di euro, di cui il 90 percento è destinata all’estero.
Qui emerge un primo paradosso: in Italia vi sono 231 aziende produttrici di armi e munizioni e una sola azienda che produce ventilatori artificiali. Il paradosso è ancora più evidente se si considera che, mentre le armi comuni sono un prodotto voluttuario non di prima necessità (vengono principalmente utilizzate per attività venatorie, ricreative o sportive e solo una minima parte è destinata all’impiego per la difesa personale, per le forze dell’ordine e di sicurezza), i ventilatori polmonari costituiscono un articolo di primaria importanza per la salute pubblica, per la stessa sopravvivenza degli ammalati. Questo confronto fa emergere un problema centrale, radicale della produzione di beni in regime di “libero mercato”: la produzione risponde esclusivamente alla domanda di mercato e alla massimizzazione del profitto privato e non tiene alcun conto della necessità di produrre quei beni e prodotti che sono di importanza fondamentale, vitale, per una comunità. Affermare che nell’attuale “libero mercato globale” qualsiasi prodotto, anche quello più necessario, sarebbe sempre disponibile a tutti (purché si abbia il denaro per acquistarlo) rappresenta un assunto, una credenza, che proprio la crisi di diversi prodotti (mascherine, tute e camici medici, tamponi, respiratori artificiali, ecc.) dovuta all’emergenza coronavirus sta tragicamente mostrando.
La Lombardia delle armi
Secondo i dati del commercio estero dell’Istat, nell’ultimo triennio dalla Lombardia sono state esportate annualmente circa 450 milioni di euro di “armi e munizioni” (sia comuni che militari): la Lombardia è la prima regione italiana per produzione ed esportazione di armi. Nello stesso periodo la Lombardia ha annualmente esportato “Strumenti per irradiazione, apparecchiature elettromedicali ed elettroterapeutiche” per 400 milioni di euro, ma ne ha dovuti importare per circa 800 milioni ed ha inoltre esportato “Strumenti e forniture mediche e dentistiche” per circa 1 miliardo di euro ma ne ha dovuti importare per quasi 3 miliardi. Più in generale, l’Italia esporta nel mondo “Apparecchi di ozonoterapia, di ossigenoterapia, di aerosolterapia, apparecchi respiratori di rianimazione ed altri apparecchi di terapia respiratoria” (tra cui appunto i ventilatori artificiali) per circa 75 milioni di euro e ne importa – soprattutto da Olanda, Regno Unito e Germania – per oltre 180 milioni di euro, Cosa intendo dire? La Lombardia e l’Italia intera sono fortemente dipendenti dall’estero per questi macchinari di importanza vitale.
La Lombardia contraria alla riconversione
“Serve un’economia di guerra per far fronte all’emergenza coronavirus” – ha detto ieri il neo Commissario all’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. “Come nelle guerre – ha aggiunto – dobbiamo produrre prima possibile quello che ci serve. Stiamo riconvertendo sistemi produttivi e importando industrie che ora sono localizzate altrove. Dobbiamo dotare il maggior numero di ospedali di strumenti per le terapie intensive e inondare l’Italia di tutto quello che serve”.
In periodi di crisi si comprende, drammaticamente e a spese della salute e della vita dei cittadini, l’importanza di avere un’industria nazionale che risponda alle effettive esigenze di tutela, di salute e di sicurezza dei cittadini e non solamente alla domanda di mercato e agli interessi del profitto. Peccato che per promuoverla si invochi l’“economia di guerra”. Non c’è alcun bisogno di un’economia di guerra. Sarebbe infatti bastato aver messo in campo qualche progetto industriale più attento alle necessità della popolazione.
Avrebbe potuto farlo la Regione Lombardia che, invece, con i governi di centro-destra ha gettato alle ortiche l’Agenzia Regionale per la riconversione dell’industria bellica, istituita nel marzo del 1994 dalla giunta di centro-sinistra (l’ultima di quel tipo in Lombardia), che nel 2006 con l’amministrazione Formigoni ha definitivamente affossato la proposta di legge per ripristinarla. Lo abbiamo ampiamente documentato su Unimondo. La Legge di iniziativa popolare del 2006 non chiedeva di riconvertire tutte le aziende del settore armiero, ma cercava di rispondere a due esigenze: “la promozione dei progetti e dei processi di disarmo e di riduzione degli armamenti” e, soprattutto, “la promozione sul mercato di prodotti alternativi sviluppati in base alla utilità sociale dei prodotti stessi”.
Uscire dalla logica delle emergenze
“Stiamo comprando mascherine in Thailandia, ventilatori in Sud America, stiamo cercando di trovare ovunque questi beni che si fa fatica a trovare perché i Paesi che sapevano che sarebbe nata una pandemia si tengono tutti quei prodotti che possono servire. Purtroppo noi siamo stati un po’ improvvidi e adesso gli altri sono un po’ più egoisti di noi” – ha dichiarato nei giorni scorsi il governatore della Lombardia, Attilio Fontana.
E’ nel tempo ordinario che si progetta e si costruisce anche per i tempi di crisi e di emergenza. E’ una lezione che l’epidemia di coronavirus ci sta insegnando. A caro prezzo e sulla pelle di molti concittadini inermi. C’è da augurarsi che tutti noi, compreso il mondo politico, impariamo finalmente la lezione. Niente ci assicura che ci verrà concessa un’altra occasione.
Articolo pubblicato anche su Unimondo