Il coronavirus è entrato nelle carceri. Garante detenuti: “Misure insufficienti, necessario liberare spazi”

Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha confermato l’esistenza di dieci casi positivi al Covid-19 in carcere individuati dal 22 febbraio scorso, prima dello scoppio delle rivolte. Nuove misure contro il contagio nell’ultimo decreto legge

Rosita Rijtano Rosita Rijtano | Redattrice lavialibera – 18 marzo 2020

Quel che si temeva, è accaduto: il coronavirus è entrato nelle carceri. Anzi, era entrato già prima delle rivolte dei detenuti che tra il 7 e il 10 marzo hanno riguardato decine di istituti di pena italiani. In un comunicato diffuso ieri sera, prima della pubblicazione del decreto legge con le nuove misure anti-coronavirus, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha confermato l’esistenza di dieci casi positivi individuati a partire dal 22 febbraio scorso, quando sono stati varati i primi provvedimenti per fronteggiare il rischio Covid-19, precisando che “si tratta di episodi isolati” e “non risultano contagi provocati da queste positività”.

L’unico caso esplicitamente menzionato nella nota è quello di Voghera, dove il detenuto è stato ricoverato in ospedale, i compagni di cella posti in quarantena precauzionale, e l’intera sezione isolata. Secondo diverse testate giornalistiche, gli altri contagi sarebbero stati registrati a San Vittore (un detenuto che si trova all’esterno dell’istituto dallo scorso dicembre), a Pavia, Voghera, Brescia (due medici), nonché al Sant’Anna di Modena, epicentro delle sommosse dei detenuti dei giorni scorsi, il cui bilancio complessivo è stato di tredici morti per overdoseInformazioni che, al momento, non vengono confermate né smentite dalle fonti ufficiali.

Covid-19, in carcere la paura del contagio è amplificata

Maria Martone, direttore in missione temporanea al Sant’Anna — che fa sapere via email di non “essere autorizzata a rilasciare interviste a priori” —, sentita dal Resto del Carlino nei giorni scorsi ha bollato la paura del coronavirus “una scusa per ottenere indulti”. La magistratura sta indagando su una possibile regia criminale esterna dietro le rivolte. Ma, secondo le associazioni a tutela dei diritti dei detenuti, in molti casi la spiegazione di quanto accaduto va cercata in un concorso di cause. L’assenza di notizie chiare, l’applicazioni di ulteriori restrizioni rese necessarie dall’esigenza di ridurre il rischio di una diffusione del virus nelle carceri, nonché la paura di un contagio considerato il tasso di sovraffollamento medio al 120 percento e le scarse condizioni igienico-sanitarie degli istituti penitenziari, avrebbero alimentato un malessere preesistente poi sfociato nelle proteste. In alcuni casi violente, ma in altri pacifiche come accaduto nella casa di reclusione femminile di Giudecca, a Venezia, dove le detenute hanno organizzato un’assemblea per manifestare contro le condizioni di vita, chiedendo clemenza o misure alternative, e raccolto 110 euro per il reparto di terapia intensiva di Mestre.

“Il timore di un contagio negli istituti di pena è amplificato all’ennesima potenza”, dice a lavialibera Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà. “Da una parte, le restrizioni, già pesanti per noi, sono ancora più gravose per i detenuti che non sono liberi di comunicare con i familiari né di navigare online in qualsiasi momento. Dall’altra, il sovraffollamento non consente le misure di distanziamento sociale necessarie per ridurre il rischio di contagio adottate al di fuori degli istituti di pena”.

Misure insufficienti, il sovraffollamento resta

Ed è soprattutto sul sovraffollamento che bisogna intervenire “in fretta per evitare il rischio di una bomba sanitaria”, ammonisce De Robert.  La sproporzione tra la popolazione carcercaria e la capienza delle strutture è un vecchio problema tornato alla ribalta a causa del coronavirus: secondo gli ultimi dati forniti dal Garante nazionale dei detenuti, le persone in cella al 13 gennaio 2020 erano 60.885, a fronte dei 50.692 posti disponibili. In media, dove dovrebbero esserci cento persone, se ne contano 120. La situazione è peggiorata nelle passate settimane: molte celle sono state distrutte e intere sezioni rese inutilizzabili durante i tafferugli. I detenuti sono stati trasferiti in altre strutture, diventate sempre più piene.

“La necessità di reperire spazi è fondamentale — prosegue De Robert — sia per assicurare la giusta distanza anti-diffusione del Covid-19, sia per predisporre un numero adeguato di celle d’isolamento per gli eventuali detenuti contagiati, sia per istituire spazi adeguati per la quarantena preventiva di quattordici giorni a cui devono essere sottoposti i nuovi arrivati, al momento fatta in delle tende allestite al di fuori degli istituti penitenziari”.

Braccialetto elettronico e domiciliari

La prima misura in questa direzione è stata adottata lo scorso otto marzo, quando è stato raccomandato alla magistratura di sorveglianza di valutare la possibilità di dare i domiciliari a chi potrebbe ottenerli per legge. Il numero dei detenuti sarebbe così sceso di circa mille unità, stando alle stime fatte dal Garante dei detenuti. Delle ulteriori disposizioni sono state previste nel decreto appena pubblicato in gazzetta ufficiale e datato 17 marzo. L’articolo 123 prevede che dall’entrata in vigore del decreto, fino al 30 giugno del 2020, vengano concessi i domiciliari a chi deve scontare condanne sino ai 18 mesi: se la pena è superiore ai sei mesi, è necessaria l’applicazione del braccialetto elettronico.

Sono esclusi i condannati per i reati più gravi, i delinquenti abituali, i detenuti particolarmente conflittuali, quelli che hanno commesso delle infrazioni disciplinari nell’ultimo anno, quelli che hanno partecipato alle proteste del 7 marzo 2020, e i senza fissa dimora. Mentre l’articolo 124 stabilisce che le licenze concesse ai detenuti semiliberi possono durare fino al 30 giugno 2020.

De Robert li definisce “dei timidi primi passi”. “Non basta. Bisogna pensare a misure che prevedano una liberazione ampliata anticipata, laddove le norme già esistenti lo consentono, avendo sempre presente la tutela di tutti cittadini”.

Inadeguati, invece, appaiono amnistia e indulto: paventati nei giorni scorsi come possibili soluzioni. Il primo “estingue il reato”, cioè lo Stato rinuncerebbe a perseguire alcuni reati ed è come se non fossero mai stati commessi. Il secondo porta invece a condonare, in tutto o in parte, la pena senza cancellare il reato. Per ottenerli c’è bisogno di un disegno di legge approvato con “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera” e valgono solo per i reati commessi prima della presentazione del disegno di legge. “Provvedimenti del genere porrebbero problemi di ordine pubblico, soprattutto considerata la situazione d’emergenza. Poi, ammesso che ci sia un accordo politico per raggiungere questa maggioranza, i tempi non sono compatibili: sarebbero necessari circa sei mesi, quando è fondamentale agire ora. Prima che sia troppo tardi”, conclude De Robert.

Nessuna tutela per anziani con patologie e braccialetti insufficienti

Dello stesso parere Alessio Scandurra, cordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, che individua due punti deboli nei provvidementi appena varati. “Innanzitutto, non è prevista alcuna disposizione specifica per i detenuti più anziani con patologie in atto, ovvero le persone più a rischio di sviluppare le complicazioni legate al coronavirus — spiega Scandurra —. Inoltre, se la pena residua da scontare è superiore ai sei mesi, è necessario che il detenuto indossi il braccialetto elettronico. Al momento, in dotazione se ne contano appena qualche centinaio e implementarli richiede una procedura che difficilmente è fattibile in tempi brevi. Di fatto, quindi, il decreto si applica a chi deve scontare una pena inferiore ai sei mesi: non più di duemila persone”.

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