La normalità era il problema

di Elisa Sermarini* – su Left numero 13 | settimanale 27 marzo – 2 aprile 2020

Viviamo in un paese in cui 18,6 milioni persone sono a rischio esclusione sociale; 5 milioni vivono in condizioni di povertà assoluta (di cui 1milione e 200mila minori); 9 milioni in povertà relativa e 50mila vivono in strada; dove 4 milioni di lavoratori e lavoratrici nonostante abbiano più di un impiego (precario) restano poveri e il 27% del totale lo diventerebbe se perdesse tre mesi di stipendio; in cui oltre 40mila donne sono vittima di violenze fisiche e psicologiche; 11 milioni di persone non possono più curarsi e il 40% di quelle che lo fanno si indebitano; dove si registra il più alto numero di NEET* in Europa coinvolgendo 2milioni 116mila giovani e in cui la dispersione scolastica è al 13,8%; dove la Direziona Nazionale Antimafia e Antiterrorismo ci racconta di mafie che fanno affari per un valore di circa 110 miliardi l’anno con traffici, droga, usura, corruzione e altro. Questo prima che arrivasse l’epidemia di COVID-19. E ora che facciamo?

Le forze politiche che si sono alternate al Governo negli ultimi 12 anni hanno praticato tagli in tutti quei settori pubblici di fondamentale importanza per uno Stato democratico. Si sarebbero dovuti mettere al centro i diritti fondamentali delle persone e – riprendendo l’art.3 della nostra Costituzione – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando la libertà e l’eguaglianza, impedisce il pieno sviluppo della persona umana e la sua effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ma la tragedia raccontata dai numeri evidenzia altre priorità.

In nome dell’economia in Italia si è affossato il Servizio Sanitario Nazionale e, con la scusa della riduzione del debito e della spending review, i Governi hanno chiuso i rubinetti degli investimenti nella sanità pubblica aumentando dal 2009 al 2017 solo dello 0,6% la spesa sanitaria. Questo ha provocato la riduzione per la spesa del personale sanitario, il blocco del turnover, l’abbattimento di 70mila posti letto, la chiusura di 175 unità ospedaliere, e l’accorpamento compulsivo delle ASL da 642 negli anni ’80 a 101 nel 2017. I tagli hanno raggiunto 25 miliardi di euro solo tra il 2010 e il 2012, seguiti da liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici, provocando l’esplosione della spesa privata che il Censis calcola in 40 miliardi di euro solo nel 2017.

Lo stesso è accaduto al Fondo Nazionale Politiche Sociali che è passato dai 3,2 miliardi del 2008, ai 99 milioni del 2016 per poi risollevarsi leggermente negli anni successivi. Questo si è tradotto in meno servizi sociali e maggior delega dei lavori di cura alle donne e al lavoro non retribuito, rappresentando – di fatto – la resa dello Stato alle leggi della finanza, arrivando persino a inserire l’austerità in Costituzione con la modifica dell’art.81 nel 2011. Medesimo destino è toccato alla spesa per il settore dell’istruzione e della ricerca e sviluppo, mentre crescevano – per dirne una – le sovvenzioni statali alle grandi imprese che investono in fonti fossili (18,8 miliardi tra sussidi diretti e indiretti solo nel 2019) che rappresentano una minaccia alla salute pubblica.

Sicuramente, non seguire le politiche di austerità e risparmiare i pesanti tagli di cui abbiamo appena parlato non avrebbe impedito al virus di circolare tra noi. Ci avrebbe permesso, però, di farci trovare tutte e tutti meno insicuri e sprovvisti di quegli strumenti fondamentali per combattere le conseguenze dirette e indirette che ha portato. Basta leggere i giornali o accendere radio e tv ogni giorno per conoscere le difficoltà che il sistema sanitario sta affrontando in queste ore ma il problema non finisce qui. Ora tutto il sistema è in crisi a causa del blocco imposto dal Governo per rispondere alla necessità di limitare al minimo la diffusione del virus. Che fine hanno fatto i milioni persone che prima dell’arrivo dell’epidemia vivevano già in una condizione di difficoltà o in un equilibrio precario? In che modo si stanno garantendo i diritti fondamentali in una situazione di grave emergenza come questa?

In Italia, abbiamo sperimentato più volte il dilemma fra salute ed economia (e lavoro) e il caso di Covid19 non fa eccezione. Si pensi – da un lato – a tutte le persone impiegate nelle filiere produttive alimentari, sanitarie e di assistenza che giornalmente mettono a rischio la propria salute e – dall’altro – a quelle escluse dalle misure contenute nel Decreto “Cura Italia”. Queste ultime sono persone impiegate in cooperative che pagano in base alle ore lavorate, le partite iva, chi esercita una libera professione ma anche chi – in un mondo del lavoro sempre più precario – aveva un lavoro in nero. Per le persone che vivono in strada e per quelle che vivono in occupazioni di luoghi abbandonati per morosità incolpevole non è stata prevista nessuna misura relativa alla prevenzione del contagio. Allo stesso modo non ci si è posti il problema di quei milioni di persone che necessitano un’assistenza domiciliare, perché non autosufficienti, che oggi si trovano scoperte a causa della mancanza di rifornimenti degli appositi dispositivi di sicurezza alle cooperative sociali da parte di molte amministrazioni locali. In grande difficoltà si stanno trovando anche quelle migliaia di donne che giornalmente sono vittime di violenze fisiche e psicologiche dentro le mura domestiche, quelle famiglie in cui è presente un soggetto con dipendenze e tante altre persone che vivono in condizioni di fragilità.

La prima cosa che ha fatto questa crisi è rendere palpabile il modo in cui l’egemonia neoliberista ha generato un livello di vulnerabilità sociale di portata planetaria imponendo a tutti e tutte noi – ma soprattutto a chi ci governa – una rivalutazione della vita. La continua caduta dei mercati azionari e i loro molteplici indicatori speculativi mostrano che senza vita non vi è alcuna possibilità che l’economia funzioni. Non esiste un sistema economico che possa essere sostenuto quando milioni di esseri umani sono a rischio. Questa crisi non è dovuta al coronavirus, bensì, è il risultato della mercificazione degli spazi pubblici, del comune e della solidarietà. Degli Stati che hanno giurato fedeltà alle leggi dell’economia e della finanza e che ora si trovano ad affrontare le proprie responsabilità nella riproduzione sociale.

L’unica risposta totale ed efficace alle crisi nella riproduzione della vita è data dalle istituzioni universali, pubbliche e libere, dagli spazi del comune, del solidario, del collettivo. Per questo, le centinaia di realtà sociali della Rete dei Numeri Pari chiedono l’estensione del Reddito di Cittadinanza ampliando significativamente la soglia di accesso, per raggiungere tutte le persone escluse dagli ammortizzatori sociali; che sia modificato nuovamente l’art.81 della Costituzione, visto che l’Europa ha sospeso il patto di stabilità ammettendo – di fatto – l’incompatibilità dell’austerità con i diritti e la democrazia; abolizione del decreto Lupi e la cancellazione dei decreti sicurezza; investimenti di 3 miliardi nelle politiche sociali, perché solo così si potranno risollevare i milioni di persone lasciate indietro, contrastare efficacemente le mafie ed essere un potente alleato per chi fa antimafia sociale sul campo.

Una delle principali sfide che questa crisi ci pone è quella di riconoscere la vulnerabilità come un principio fondamentale del sociale e, di conseguenza, istituzionalizzare un’economia il cui asse è la vita e non l’accumulazione e starà a noi organizzare la rabbia in sete di giustizia per tutte le ingiustizie sociali, ambientali ed economiche causate dalla governance liberista.

*Responsabile Comunicazione Rete dei Numeri Pari

La normalità era il problema

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