Fase 2. Non è uno scrupolo eccessivo, ma il solo modo in cui ci si può assicurare che il governo operi nei limiti dalla Costituzione: i Dpcm sono atti amministrativi non soggetti al sindacato della Corte costituzionale, dunque sfuggono al controllo di costituzionalità
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L’attenuarsi dell’emergenza impone il ripristino delle ordinarie competenze costituzionali e il ritorno agli equilibri tra i poteri. Gli atti extra ordinem e le decisioni autoritative assunte dal Governo nella fase più acuta della pandemia sono state legittimate dalla necessità di salvaguardare la vita degli individui. Ora, il diritto fondamentale alla salute deve continuare ad essere preservato, ma senza più bisogno di rotture o forzature.
In questa fase di convivenza con il virus (“fase 2”), non potranno più essere giustificati quegli atti posti in essere per fronteggiare esigenze improvvise e imprevedibili, decisioni assunte per tutelare la salute come fondamentale “interesse della collettività”. Ora, ci dice il Governo, lo stato di necessità va ad attenuarsi e la riapertura delle attività produttive è possibile. Viene così meno anche il presupposto legittimante gli interventi posti in deroga.
Lo “stato di necessità” – abbiamo già scritto in passato – è fonte autonoma del diritto, ma non costituisce invece uno strumento di governo, ne deve pertanto essere impedita ogni possibile generalizzazione. Ciò che non può ammettersi, dunque, è che la “ripresa” dell’attività produttiva, ma più in generale il lento e faticoso ritorno alla normalità, sia regolato da strappi e forzature. Il Governo, ma anche gli altri poteri, dovranno allora mostrare il massimo impegno per il più rigoroso rispetto delle forme e dei modi che la nostra Costituzione impone.
Ciò non vuol dire che non potranno essere assunte decisioni rapide al sopraggiungere di avvenimenti imprevedibili ovvero che ci si privi di strumenti adeguati a fronteggiare le esigenze straordinarie imposte dalla ancora lunga fase di emergenza sanitaria. Vuol dire invece che si dovranno utilizzare esclusivamente i mezzi e gli atti che la Costituzione e le leggi prevedono, non altri la cui legittimità è dubbia. Così, dovrebbe essere finito il tempo dei DPCM e ripristinato l’uso dei decreti-legge, nonché della legge ordinaria.
Non è questo uno scrupolo eccessivo, ma il solo modo in cui ci si può assicurare, anche in questa fase di transizione emergenziale, che il Governo operi nei limiti dalla Costituzione. Difatti i DPCM sono atti amministrativi assunti sotto l’esclusiva responsabilità del Presidente del Consiglio non soggetti al sindacato della Corte costituzionale, ma paradossalmente a quello del giudice amministrativo. Dunque, questi atti sfuggono al controllo di costituzionalità e alle altre garanzie che la nostra Costituzione impone.
I decreti-legge, invece, sono atti straordinari, che, sebbene – non dimentichiamo – anch’essi mal si conciliano con la riserva di legge in materia di libertà e diritti fondamentali, perlomeno sono previsti in Costituzione, la quale attribuisce la responsabilità all’intero Governo e non solo al Presidente del Consiglio come singolo. Sono inoltre decreti sottoposti ad una serie di controlli, anzitutto da parte dei garanti della Costituzione: il Capo dello Stato, il quale, prima della loro entrata in vigore, dovrà emanarli e dunque verificare che essi non violino “manifestatamente” la Costituzione.
Successivamente, una volta convertiti in legge dal Parlamento, essi potranno essere sottoposti al sindacato della Consulta che avrà il compito di far venir meno il proseguimento degli effetti non ritenuti conformi a Costituzione. Sono queste le regole dello Stato costituzionale che devono valere anche nella fase di prolungata emergenza che ci apprestiamo a vivere.
Il corretto assetto delle fonti, in realtà, impone anche un intervento diretto del Parlamento. Sino ad ora latitante, impegnato a discutere sul se e come riunirsi, ma del tutto afono. Sarebbe assai più utile se le Camere, i gruppi parlamentari, i singoli rappresentanti dei partiti, anziché esclusivamente arrovellarsi su come far votare i deputati e senatori assenti, si impegnassero a proporre atti legislativi da discutere, sia pure con l’ausilio delle tecniche informatiche, che però – si dimentica – rappresentano uno strumento al servizio della funzione e non un suo sostituto.
È la mancanza di assunzione di una responsabilità diretta da parte del Parlamento che impressiona in questa fase, non le modalità di voto. L’ordinaria attività parlamentare è stata sospesa: si può comprendere un rallentamento di questa, non invece il fatto che l’organo della rappresentanza democratica continui a sfuggire dalla responsabilità di approvare una legge d’iniziativa parlamentare in tema di diritti fondamentali.
Il governo ha disposto nella fase acuta della pandemia, per ragioni di comprovata e indiscutibile necessità, forti limitazioni in materia di diritti di libertà (personale, circolazione, riunione, religiosa, lavoro), utilizzando atti, forse necessari, ma nondimeno extra ordinem. Spetta ora al Parlamento garantire il rispetto di tali diritti e indicare i limiti di esercizio anche al tempo della convivenza con il virus. Le riserve di legge previste in Costituzione lo pretendono.
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