Lo scorso 17 ottobre ci siamo incontrati durante l’assemblea nazionale della Rete dei Numeri Pari. Era la giornata per l’eliminazione della povertà e abbiamo denunciato la situazione del nostro Pese facendo allo stesso tempo proposte e indicando soluzioni. Qual è la situazione secondo il Censis a un anno di distanza?
Gli effetti del Covid sono molto alterni e ambigui. La prima valutazione da fare è che la pandemia ha privilegiato in termini economici coloro che avevano già un reddito, lasciando indietro alcuni – i già poveri – che non hanno avuto coperture, e altri – i ceti medi – che non hanno avuto la sicurezza del lavoro e che si sono trovati in grande difficoltà. È difficile ricondurre questo squilibrio al concetto di povertà classico, perché il vero povero durante la pandemia non è chi si trova in una condizione economica limitata ma quello che non può più garantirsi l’iniziativa personale nella quotidianità. La disuguaglianza quindi si è allargata attraverso forme non tradizionali di reddito, ma è avvenuta per mancanza di possibilità di azione. Questo è un cambiamento che non è stato colto dalla politica e ha prodotto una sottile divaricazione tra chi poteva permettersi di stare a casa e chi no. La seconda cosa importante da sottolineare è che c’è una reale possibilità di appesantimento della situazione, legata non solo alla sfera economica ma anche a quelle psicologica e sociale. Chi è stato costretto a lavorare da casa per 6 mesi, vedendo demolita la sua routine quotidiana, con grande probabilità avrà difficoltà a recuperare la sua dimensione sociale quando arriverà il momento di uscire.
La pandemia di covid-19, dunque, ci ha reso più diseguali. I primi dati denunciano una situazione che non si vedeva dalla seconda guerra mondiale ma vediamo anche che i ricchi diventano sempre più ricchi. Crede siano stati messi in campo gli strumenti necessari per garantire la sicurezza sociale e sanitaria dei nostri concittadini? Cosa pensa succederà nei prossimi mesi? Crede che la politica abbia assunto in termini prioritari la lotta alle disuguaglianze?
Il vero fenomeno non è che 8 persone in più sono diventate miliardarie nei primi 6 mesi del 2020 ma che il lockdown è stato occasione per milioni di italiani di accumulare risparmi. Nella fase post-emergenza, la biopaura da contagio e la minaccia alla salute si saldano ai timori per le incerte prospettive economiche. La paura diventa così il principio regolatore emotivo di questa nuova stagione e paura, incertezza e cautela fanno decollare ancora il cash cautelativo, da tempo in crescita, come strumento familiare di autotutela.
Tutti quelli che non hanno avuto garanzie dal proprio lavoro hanno creduto che ci avrebbe pensato lo Stato ma questo non è avvenuto. Sono stati previsti i bonus più disparati, da quello per la babysitter a quello per il monopattino ma l’errore è stato doppio: da una parte la politica dei bonus rischia di creare una società sussidiata svuotata dell’iniziativa personale, ma dall’altra questi sussidi sono stati erogati sulla base del maggiore consenso che questi avrebbero portato. Si è preferito dare bonus non dove ce n’era bisogno ma dove si pensava ci fosse il disagio sociale che avrebbe fatto più notizia sui giornali: il sostegno ai lavoratori e le lavoratrici precarie o il bonus per l’acquisto di apparecchi informatici? Guardando a tutti i bonus che sono stati messi in campo, è evidente che sono orientati all’ottenimento di un po di consenso non a una politica di redistribuzione, riequilibrio o almeno di mantenimento della situazione precedente alla pandemia.
Il governo che era partito con l’idea di sussidiare la società in questi mesi e poi vedere in futuro cosa fare ma a un certo punto ha avuto paura che gli interventi messi in campo non avrebbero avuto delle ricadute economiche importanti. Piuttosto che incidere sui segmenti sociali che hanno pesantezza economica, hanno scelto di fare interventi che non hanno costi economici indiretti. La chiusura dei ristoranti alle 24 e il proseguimento del campionato calcistico di serie A sono un chiaro esempio di questa incoerenza. Hanno voluto mantenere un equilibrio tra il continuare a garantire interessi economici e il dare una parvenza di mettere in campo misure serie per evitare assembramenti.
La Procura Nazionale Antimafia, l’ANAC e le realtà sociali impegnate sul campo denunciano un aumento del potere e della forza delle mafie paragonabile solo al periodo storico post seconda guerra mondiale. Quali politiche sociali e culturali dovrebbero essere messe in campo per sconfiggere la criminalità organizzata e il welfare sostitutivo mafioso sui territori?
Nei momenti di debolezza collettiva non solo le mafie ma anche la criminalità ne approfitta per radicarsi nei territori, corrompere e intercettare nuova manovalanza. Questa non è una cosa nuova! La novità oggi è che le mafie stanno assumendo un rischio d’impresa che non può essere ricondotto solo alla necessità di investire denaro sporco ma alla costruzione di qualcosa di più grande. Investire non in grandi affari ma nell’acquisto di locali, che poi devono essere chiusi come tutti gli altri, rappresenta un rischio nuovo anche per le mafie. Si dovrebbe fare in modo che i proprietari originari dei locali non subiscano il ricatto di dover vendere per rispondere a un momento di difficoltà. Così come c’è bisogno di politiche sociali che sostengano le fasce più in difficoltà all’interno di una prospettiva politica lontana dai sussidi che sia in grado di combattere la stessa cultura mafiosa e para-mafiosa.
La Rete dei Numeri Pari nasce con l’obiettivo di contrastare le disuguaglianze e si impegna per una società più equa, fondata sulla giustizia sociale e ambientale. Insieme alle comunità indigene, al Papa e ai movimenti che mettono insieme giustizia sociale, ambientale ed ecologica riteniamo urgente e indispensabile istituzionalizzare questo nuovo paradigma. È a nostro avviso l’unica strada per uscire tutti e tutte insieme dalla crisi, investendo sulla riconversione delle nostre attività produttive e della filiera energetica per rimettere insieme il diritto alla salute, al lavoro e la partecipazione delle comunità locali. Lei cosa ne pensa?
Mi scatta un realismo quasi perverso che mi fa dire “basta con le omelie!”. Continuare con i lunghi discorsi in cui si parla di sostenibilità, di economia circolare, di giustizia ambientale dall’alto sta consumando il dibattito sulla giustizia ecologica. Quando si evidenziano tutte le criticità legate alle ingiustizie sociali, ambientali ed ecologiche ma non si traducono queste parole in azioni concrete, si sta solo dissolvendo la percezione del problema.
In Italia sono nel secondo dopoguerra abbiamo avuto la tramutazione della preoccupazione collettiva in consapevolezza di dover fare qualcosa concretamente per cambiare la propria condizione materiale. Oggi riscontriamo una nobiltà del discorso ma questa consapevolezza ancora non c’è! Non si può parlare male della sostenibilità ma quando a parlarne sono le grande aziende internazionali vuol dire che l’abbiamo consegnata nelle mani di chi la consumerà fino a non volerne più parlare.
In questo quadro il ruolo dei corpi intermedi è fondamentale! Questi hanno la responsabilità di affrontare l’oggi senza perdersi in un’idea di futuro che sicuramente hanno chiara ma che non può essere declinata in questo modo. Quando si parla di giustizia ecologica declinandola in termini di futuro, questa viene affrontata con grandi seminari, conferenza e pubblicazioni ma sono solo parole. Ora abbiamo bisogno di una politica orientata all’oggi! I soggetti sociali e sindacali devono avere il coraggio di dire “sì, sto partecipando all’onda lunga che porterà all’istituzionalizzazione di un nuovo paradigma ma mi sto impegnando concretamente oggi accettando il corpo a corpo con il presente!”.