Aumentano le richieste di aiuto ai centri anti-violenza e in molte saranno costrette a scegliere tra figli e lavoro. Sono alcune conseguenze che la pandemia sta avendo sulla vita delle donne
27 aprile 2020 – Rosita Rijtano – Redattrice lavialibera
Chiedono sempre più aiuto ai centri anti-violenza, fanno fatica a esercitare il diritto all’aborto, e in molte saranno costrette a scegliere se lasciare il lavoro o i figli a casa da soli, in un paese che si trova già in fondo alla classifica dell’Unione europea per occupazione femminile. Sono solo alcune delle conseguenze che il coronavirus sta avendo sulla vita delle donne. Donne che hanno appena superato di numero i contagiati uomini, costituendo il 51,4 percento dei positivi, e stanno pagando il prezzo più alto della pandemia in termini di salute riproduttiva, nonché sotto il profilo sociale ed economico. Una disparità sottolineata anche da un report dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), secondo cui tutte le risposte politiche alla crisi dovrebbero adottare una prospettiva di genere tenendo conto delle peculiari esigenze delle quote rosa, particolarmente vulnerabili ai danni causati dal covid-19.
Prima di tutto, si legge nel documento, le donne “compongono il 70 per cento della forza lavoro sanitaria, il che le espone a un maggior rischio di infezione”. Allo stesso tempo, sulle loro spalle grava gran parte della gestione domestica, resa ancor più pesante dalla chiusura delle scuole e dall’annosa diseguaglianza nel lavoro non retribuito. Inoltre, rischiano maggiormente di subire violenze o abusi, di perdere il posto o veder decurtato il proprio stipendio.
Fine violenza mai
Sia a livello globale sia a livello europeo si è registrato un incremento della violenza domestica. Abusi che il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, ha definito “orribili” esortando i governi a includere provvedimenti per la tutela delle donne nelle politiche anti-coronavirus. Per avere un’idea di cosa stia accadendo nel nostro Paese basta scorrere le cronache degli ultimi giorni: il 21 aprile un 39enne ha ucciso la figlia di quattro anni sotto gli occhi della madre, il giorno prima un ragazzo di 22 anni ha accoltellato la fidanzata, il 19 una donna è stata uccisa dal partner che ospitava in casa propria durante la pandemia, il 18 una giovane è stata presa a martellate dall’ex compagno sotto casa. L’elenco potrebbe continuare ed è prova tangibile “della drammaticità della situazione“, denuncia Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa: l’associazione che gestisce il numero gratuito di servizio pubblico antiviolenza e stalking 1522, attivo 24 ore al giorno e raggiungibile anche via chat, istituito dal Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Dopo uno stop iniziale, che aveva portato le organizzazioni a lanciare un appello affinché le donne chiedessero aiuto, i telefoni hanno ripreso a squillare e “il numero di persone che chiede un sostegno psicologico è aumentato rispetto al passato: segno che le sofferenze sono tante”.
Le vittime chiamano mentre sono in bagno, buttano la spazzatura, o fanno la spesa: in tutti quei pochi momenti di libertà concessi dalla convivenza forzata a cui ha costretto il coronavirus. Ma a rivolgersi ai numeri di emergenza non sono solo le vittime, bensì anche i vicini di casa: “Non riescono più a rimanere indifferenti alle urla che ascoltano al di là del muro, prima ignorate”. Oppure amici, genitori e fratelli “che in questo periodo stanno scoprendo gli abusi subiti dalle donne a loro care”. Eppure, per Moscatelli, ancora di più è il sommerso: “Capiremo la vera portata dell’aumento solo a fine pandemia, il primo giorno che l’aguzzino uscirà di casa. Sono sicura che in quel momento la vittima cercherà subito di capire se denunciare, come denunciare e quale percorso intraprendere per fare il più in fretta possibile”.
“A chiamare sono anche padri, fratelli e amici che in questo periodo stanno scoprendo gli abusi subiti dalle donne a loro care”Gabriella Carnieri Moscatelli – presidente del Telefono Rosa
Un indicatore arriva da una rilevazione fatta dai centri antiviolenza D.i.Re tra le ottanta organizzazioni che aderiscono alla rete: dal 2 marzo al 5 aprile 2020 sono state complessivamente contattate da 2.867 donne, con un incremento del 74,5 percento rispetto all’ultimo rilevamento del 2018. Tuttavia la percentuale di donne che non si erano mai rivolte prima a queste organizzazioni si è fermata al 28 percento (per un totale di 806 persone), registrando un calo rispetto alla media dei nuovi contatti mensili negli anni precedenti. “Quando parliamo di violenza, non parliamo solo di violenza fisica, ma anche di violenza psicologica“, aggiunge Cinzia Maroccoli, consigliera D.i.Re. Anche se, precisa, gli abusi non sono una diretta conseguenza della pandemia “perché un uomo violento lo era anche prima. La situazione può solamente aver acuito comportamenti già in essere, o latenti, da parte dell’uomo violento”.
A essere cambiata è la gestione delle richieste di aiuto. “I colloqui di persona sono stati temporaneamente sospesi, mentre continua a essere operativo il servizio di accoglienza nelle case rifugio. Tuttavia, la capienza delle strutture si è ridotta per garantire il distanziamento sociale necessario. Inoltre, è richiesto che i nuovi ingressi rimangano in isolamento per quattordici giorni, ma non tutti i centri hanno a disposizione gli spazi e non tutte le prefetture sembrano aver indicato luoghi ad hoc, come stabilito da una circolare ministeriale”.
“Abbiamo ricevuto tante richieste di accoglienza, ma non possiamo soddisfarle perché non abbiamo gli spazi ad hoc per far fare a queste donne i quattordici giorni di isolamento necessari e la prefettura non ha indicato nessuna soluzione — conferma Luigia Rosito, responsabile del centro anti-violenza di Fabiana, in Calabria —. Alcune donne, dopo violenti litigi con i compagni, sono andate via di casa e hanno trascorso giorni e notti in strada. Alcune di loro sono ancora in strada. Non possiamo accettarlo, chiediamo che si trovi subito una soluzione”. Mascherine, gel igienizzante, e termometri non pervenuti. “Ce ne siamo dovuti dotare a nostre spese”, prosegue Maroccoli. E l’aumento dei costi è un tasto dolente: “Sono stati promessi dei fondi straordinari, ma in realtà hanno semplicemente sbloccato fondi ordinari che già spettavano ai nostri centri. Una misura insufficiente, tanto che abbiamo dovuto lanciare una campagna donazioni“. Per l’emergenza, Di.Re ha collaborato con l’associazione Luca Coscioni per sviluppare una sezione di Citbot, un chatbot che risponde automaticamente alle domande, interamente dedicata alle vittime di violenza.
Aborti negati e fecondazione assistita sospesa
Un altro fronte riguarda la salute riproduttiva femminile. In primis, a essere stato messo in discussione dal coronavirus è il diritto all’aborto previsto dalla legge 194. In teoria, una circolare del ministero della Salute emessa il 30 marzo 2020 lo inserisce tra le prestazioni che non possono essere rimandate a causa della pandemia. In pratica, “già in condizioni normali la donna che vuole interrompere una gravidanza, come previsto dalla legge, inizia un percorso a ostacoli”, dice Filomena Gallo, segretario nazionale dell’associazione Luca Coscioni. Una norma che a 42 anni dalla sua entrata in vigore, accusa,”non viene ancora applicata per mancanza di volontà politica”.
Secondo le stime del quotidiano la Repubblica, solo il 64 percento dei nostri ospedali ha reparti per la legge 194 e la percentuale di obiettori di coscienza, tra medici, anestesisti e paramedici, supera il 70 percento. “A seconda della regione in cui ci si trova, cambia la possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza nei tempi previsti (ovvero 12 settimane di gravidanza per l’aborto chirurgico e 7 dall’ultimo ciclo mestruale per quello farmacologico, ndr). E sempre a seconda della regione, cambia il metodo che è possibile utilizzare. In Sicilia, la Ru486, la pillola abortiva, non viene nemmeno richiesta dal settore farmaceutico regionale”.
“In Sicilia, la Ru486, la pillola abortiva, non viene nemmeno richiesta dal settore farmaceutico regionale”Filomena Gallo – segretario nazionale associazione Luca Coscioni
Una situazione peggiorata a causa del covid-19. Lo dimostrano le testimonianze raccolte dalla Laiga, storica associazione in difesa della legge 194, come quella di Maria: “A Milano sono stata respinta da quattro ospedali — racconta —. Ero vicina al termine quando finalmente mi hanno accettato alla Mangiagalli”. Ecco perché in una lettera aperta indirizzata al presidente Giuseppe Conte, nei giorni scorsi quattro associazioni (Laiga, Pro-Choie, Amica e Vita di Donna) hanno chiesto “misure urgenti” per garantire le interruzioni volontarie di gravidanza. In particolare, è stato proposto di spostareil limite di tempo del trattamento farmacologico, come già avviene in alcuni Paesi dell’Unione europea, considerati i momentanei ostacoli organizzativi. E di introdurre la possibilità che questo trattamento, oggi per legge svolto in regime di ricovero ospedaliero, venga effettuato in regime ambulatoriale. Una soluzione che permetterebbe di alleggerire il peso sugli ospedali, già sovraccarichi, e ridurrebbe il rischio contagio per le donne. Il pericolo è che in alternativa si ricorra all’aborto clandestino: problema di cui non abbiamo alcuna contezza, visto che la “relazione spettante al ministro di grazia e giustizia è in ritardo di tre anni”.
Le cose non migliorano se ci spostiamo sul versante della fecondazione medicalmente assistita. Il Centro nazionale trapianti e il Registro nazionale della procreazione medicalmente assistita dell’Istituto superiore di sanità hanno raccomandato ai centri di sospendere tutti i trattamenti. La possibilità di diventare genitori riguarda parimenti donne e uomini. Tuttavia, al termine della pandemia si porrà un problema riguardo al limite di età, fissato dalle regioni, in cui le donne possono accedere ai trattamenti. “Ci sono donne che a emergenza finita avranno superato la soglia d’età stabilita dalle regioni senza, per altro, alcun fondamento legale visto che la legge parla di età potenzialmente fertile e non indica un’età anagrafica — prosegue Gallo —. È necessaria una proroga”. Un esempio virtuoso arriva dalla regione Toscana che ha prolungato di sei mesi il limite di età per l’accesso alla fecondazione assistita. Ma poco altro è stato fatto. “Sembra quasi che quando si parla di salute femminile, si scenda di ordine di priorità“, conclude Gallo.
Non è un lavoro per donne (soprattutto se mamme)
All’Associazione italiana genitori, che sotto il suo ombrello raccoglie circa 1300 associazioni, in queste ore stanno arrivando decine di messaggi, tutti con la stessa domanda: come faremo dopo il 4 maggio? Perché se la data per la graduale ripartenza è stata fissata (il 4 maggio, appunto), di quella che stabilisce la riapertura delle scuole non si ha alcuna notizia. La ministra Lucia Azzolina ha già anticipato la decisione di lasciare chiuse le scuole fino alla fine dell’anno scolastico, scelta confermata dal premier nei giorni scorsi. Così a partire dal 4 maggio “molte donne si troveranno a un bivio: o lasciare i figli a casa da soli, o non tornare al lavoro“, dice Anna Maria Bertoli, vicepresidente dell’Associazione italiana genitori e infermiera bresciana. Perché “nella maggior parte dei casi, la gestione familiare pesa soprattutto sulle mamme”. Tra le misure varate con il decreto Cura Italia, ci sono bonus babysitter da 600 euro e 15 giorni di congedo parentale. “Ma non sono abbastanza per far fronte alla situazione fino a settembre — spiega Bertoli —, senza tener conto che in questo momento, nelle zone più colpite si fatica solo a trovarla una babysitter. La pandemia sta rendendo sempre più evidente che le politiche familiari non hanno mai funzionato”. Il problema è ancora più evidente se si concentra lo sguardo sulle famiglie monoparentali, cioè quelle con un solo genitore con a carico uno o più figli: l’ultima rilevazione dell’Istat risale al biennio 2015-2016 e mostra che le mamme sole rappresentano l’86,4 percento dei nuclei monogenitore.
“La chiusura delle attività ha spesso riguardato professioni dominate da donne. Lavori già precari che probabilmente non avranno diritto a un congedo per malattia retribuito” Alessandra Servidori – docente universitaria di politiche del welfare
Alle tante donne che saranno costrette a scegliere tra figli e lavoro si affiancano quelle che il lavoro l’hanno temporaneamente perso a causa del coronavirus. “La chiusura delle attività ha spesso riguardato professioni dominate da donne — sottolinea Alessandra Servidori, docente di politiche del welfare e strumenti contrattuali al dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e consulente del ministero del Lavoro — come parrucchieri ed estetiste, assistenti di volo, operatori turistici, addetti alle pulizie. Lavori già precari e che probabilmente non saranno pagati né avranno diritto a un congedo per malattia retribuito”. Uno studio dell’Istituto Europeo per l’uguaglianza (Eige) rileva che [CONTINUA A LEGGERE SU La via libera]