Il recovery plan non ferma i sussidi alle fonti fossili

Mentre il governo litiga sulla bozza del Piano nazionale di ripresa per spendere i 196 miliardi di Next Generation Eu, le associazioni ambientaliste chiedono un cambio di passo reale

Dopo mesi di ipotesi e speculazioni, a inizio settimana è trapelata la prima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con cui l’Italia prevede di spendere i 196 miliardi (la fetta più grande) del Next Generation Eu, il fondo voluto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per la ripresa post pandemia.

Il documento di 125 pagine si apre con le parole del premier Giuseppe Conte che sottolinea l’orizzonte di lungo periodo del piano “come indicato dal nome stesso del programma europeo: ‘la Nuova Generazione’, cui dobbiamo guardare perché ‘Non abbiamo ereditato la Terra dai nostri padri, ma l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli’”. Alla riconversione ecologica è destinata per ora la quota maggiore del pacchetto: 74,3 miliardi, il 37,9% come richiesto dall’Europa.

Eppure, “la nuova generazione” non sembra d’accordo: “State scrivendo il Recovery Fund pensando agli anni Venti. Ma del Novecento”, è lo slogan che il movimento Fridays for future ha scelto per lanciare la campagna Non fossilizziamoci. A inizio settimana è stato infatti pubblicato anche l’annuale report Stop sussidi alle fonti fossili e ambientalmente dannosi, che tratteggia un’immagine del Paese tutt’altro che verde. Anche quest’anno nella legge di bilancio non c’è traccia dei tagli ai sussidi alle fonti fossili che hanno raggiunto quota 35,7 miliardi di euro. Tagli che l’associazione chiede vengano inseriti proprio nel recovery plan.

Il Ccs di Ravenna e la favola dell’idrogeno

Nei giorni scorsi un’altra notizia aveva messo in allerta le associazioni ambientaliste: la possibilità di affiancare al governo nella gestione del recovery plan gli amministratori delegati delle maggiori società italiane a controllo pubblico. Da mesi le grandi aziende statali hanno dialoghi costanti con il governo. D’altronde la partita del recovery plan è probabilmente la sfida maggiore dei prossimi anni, gli stessi considerati fondamentali dagli scienziati per invertire la rotta del cambiamento climatico.

“Sul recovery fund il governo ha sentito in audizione sia Eni sia Enel – spiega Maura Peca di ASud –. Per Eni i finanziamenti europei potrebbero arrivare per il progetto di stoccaggio della CO2 di Ravenna, che loro considerano chiave per la riduzione delle emissioni”. La multinazionale italiana del petrolio avrebbe chiesto 12 miliardi di euro per la realizzazione di un impianto nel mar Adriatico per la produzione di idrogeno da fonte fossile e lo stoccaggio di anidride carbonica (tecnologia Ccs, ovvero Carbon capture and storage) in ex giacimenti di gas. “Continuare a estrarre combustibili fossili e poi provvedere alla cattura della CO2: questo progetto è l’emblema del greenwashing di Eni”, commenta Peca.

Di altro avviso pare il governo, con il premier Conte che lo scorso giugno a Ravenna ha parlato del “più grande centro al mondo di cattura e stoccaggio di CO2”, un “polo di eccellenza”. “Il progetto è ancora in fase preliminare – commenta Alessandro Runci di Re:Common –, ma di una cosa siamo certi: sarebbe molto più conveniente investire in energie rinnovabili”.

Nella bozza del Pnrr gli “investimenti nella filiera dell’idrogeno e progetti europei” rappresentano uno dei punti chiave della “rivoluzione verde”. A luglio Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea con delega al Green deal, ha definito l’elemento chimico “la rockstar delle nuove energie”. Peccato che l’idrogeno possa essere ricavato tanto dall’acqua – e in questo caso sì che possiamo parlare di idrogeno verde – quanto da idrocarburi come il metano e attualmente “il 96% dell’idrogeno utilizzato per produrre energia elettrica deriva dal gas fossile”, spiega Runci che parla di “un cavallo di Troia”.

A confermare la favola dell’idrogeno è un altro rapporto uscito a inizio settimana, a cura anche di Re:Common, e che quantifica in 58 milioni di euro in un anno la cifra sborsata dall’industria del gas per le attività di lobby nei confronti dell’Ue. A spingere per il passaggio all’idrogeno sono dunque soprattutto le multinazionali delle fonti fossili. Runci non è tuttavia sorpreso da ciò che sta avvenendo sul recovery plan: “Non è una novità, la politica si è sempre piegata agli interessi di queste società, altrimenti non saremmo dove siamo oggi. Sono anni che multinazionali fossili e lobby cercano di sabotare e annacquare l’azione climatica. Greenwashing non è solo aggiungere il prefisso bio a una raffineria, è il tentativo di rovesciare la narrazione per far passare certi progetti come utili, quando non fanno che allontanarci dall’obiettivo”.

Il caso Eni, come funziona il greenwashing

“Da una parte l’azienda sta continuando a puntare sugli idrocarburi che restano il core business e per le quali si prevedono investimenti fino al picco nel 2025, mentre la produzione al 2050 si baserà all’85% sul gas, che è comunque una fonte fossile. Dall’altra a livello comunicativo Eni si racconta come un’azienda che ha messo al centro la transizione ecologica”, spiega Maura Peca. È stata lei a curare per ASud il rapporto Follow the green. La narrazione di Eni alla prova dei fatti. “Basta provare a digitare sul sito di Eni l’espressione ‘fonti fossili’: i risultati della ricerca parleranno dell’esatto opposto”. In effetti, le parole più frequenti sono “decarbonizzazione”, “rinnovabili” e “sostenibilità”.

Tra tutte c’è una pubblicità che in questi mesi ha invaso i giornali e le emittenti di qualunque colore politico e che secondo Peca veicola un messaggio subdolo. I protagonisti sono personaggi come Silvia, “sempre attenta a non sprecare acqua” o Alice e Rafael che “hanno scelto elettrodomestici a basso consumo energetico”. “Con questa pubblicità – spiega Peca – si paragonano le azioni dei singoli, come la povera Silvia che deve chiudere l’acqua ogni volta che si insapona, all’impatto di una multinazionale come Eni che è considerata la trentesima azienda per emissioni climalteranti al mondo”.

Alcune delle pubblicità di Eni apparse negli ultimi mesi

Un allarme finora inascoltato

“Se i fondi europei del recovery plan non saranno vincolati a condizioni green e non sarà prevista una lista nera, alcune aziende tenteranno di darsi una reputazione verde non fondata”. Già ad agosto Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, aveva lanciato l’allarme a lavialibera. Previsioni confermate anche da Runci: “Durante la pandemia la pressione delle lobby e dei grandi gruppi (da Eni a Snam fino a Enel) è aumentata: per accaparrarsi i pacchetti di aiuto, per smantellare le normative ambientali come avvenuto con il decreto semplificazioni e soprattutto per plasmare l’agenda per la ripresa. In questo il greenwashing gioca un ruolo fondamentale”.

Secondo gli esperti le premesse non sono buone: “Stiamo facendo… [CONTINA A LEGGERE SU La via libera]

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