Il Pnrr prevede quasi tre miliardi di euro per la giustizia, di cui 2,3 per assunzioni a tempo determinato. Dalla relazione dell’ex ministro Alfonso Bonafede emergono molti problemi strutturali che la nuova guardasigilli Marta Cartabia dovrà affrontare
Avviso Pubblico – 17 febbraio 2021 – La via libera
L’inaugurazione dell’anno giudiziario è un momento di sintesi in cui i massimi esponenti del sistema – dal ministro della Giustizia al primo presidente della corte di Cassazione, passando per le corti di appello dei distretti giudiziari – tirano le somme in merito allo stato di amministrazione della giustizia nel nostro paese, un capitolo particolarmente divisivo in seno al dibattito politico. Non a caso l’ormai ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha rassegnato le dimissioni nonostante avesse incassato una risicata fiducia al Senato, conscio che il governo sarebbe andato comunque in minoranza sulla imminente votazione dell’annuale relazione che il guardasigilli presenta alle Camere.
Benzina nella macchina della giustizia
Sono numerosi i temi che la nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, troverà sul tavolo di via Arenula, tra questi la prescrizione, le riforme del processo penale e civile, le diverse proposte di legge ferme da tempo nelle commissioni parlamentari. Ma, dalla relazione dell’ex ministro Alfonso Bonafede, emergono numerosi problemi strutturali della giustizia in Italia, da affrontare se non prima, almeno contestualmente agli argomenti sopra citati. “Nessuna riforma può essere efficace senza l’immissione di risorse umane e strumentali adeguate, senza mettere benzina nella macchina della giustizia”, si legge nella relazione in merito agli attesi finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), meglio conosciuto da tutti come recovery plan.
Dal Pnrr licenziato dall’ultimo esecutivo, oggetto di serrate audizioni parlamentari anche durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo, la giustizia dovrebbe ricevere poco più di tre miliardi di euro, in gran parte (2,3 miliardi) assorbiti da “assunzioni a tempo determinato dedicate al rafforzamento e alla riqualificazione del cd. Ufficio per il processo”, introdotto dall’articolo 50 del decreto legge n.90 del 2014 (governo Renzi), che a sua volta integra un decreto del governo Monti sulla “giustizia digitale” (D.l. 179 del 2012). “L’Ufficio per il processo è un progetto di miglioramento del servizio giustizia, che partendo da prassi virtuose di revisione dei moduli organizzativi del lavoro del magistrato e delle cancellerie, consente di supportare i processi di innovazione negli uffici giudiziari” si legge sul sito del Ministero. Implementazione delle tecnologie in ambito comunicativo e informativo, collaborazione integrata con personale tecnico di supporto, strutture di assistenza all’attività giurisdizionale dei magistrati. Un tema centrale quello dell’informatizzazione del sistema – ribadito a gran voce da numerosi magistrati – ma che finisce puntualmente ai margini del dibattito politico, soppiantato il più delle volte dalla dicotomia, semplicista e deleteria, prescrizione sì/prescrizione no.
“Lo scopo – si legge ancora nella relazione sull’amministrazione della giustizia – è quello di assorbire, nell’orizzonte previsto (2026), l’arretrato che rappresenta il principale fattore di rallentamento dei processi e l’ostacolo pratico all’attuazione del diritto alla ragionevole durata. Qualora tali linee di investimento trovassero il consenso del Parlamento e, successivamente, delle istituzioni europee, si prevede, secondo la pianificazione prospettata dal ministero, che già nel 2021 circa 10.000 persone potrebbero entrare negli uffici per supportare la giurisdizione”.
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I peggiori in Europa per tempi dei processi
Ma quanto è irragionevole la durata di un processo in Italia? La Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej) certifica i nostri record negativi (qui il rapporto dello scorso autunno, sui dati del 2018): un anno di attesa (361 giorni) per un processo penale di primo grado, rispetto ad una media europea pari a meno della metà (144 giorni). E nel processo civile? Peggio di noi (527 giorni) solo la Grecia (559), a fronte di una media europea di 233 giorni. Motivi di questo gap dal resto d’Europa? Numerosi, ma la “quantità di arretrato accumulato” gioca una parte fondamentale, nonostante la Commissione riconosca all’Italia il tentativo di porre rimedio negli ultimi anni.
L’edilizia giudiziaria
Altro tema molto delicato, contenuto nel Pnrr e connesso alla durata dei processi, è relativo all’edilizia giudiziaria. “Una delle linee di finanziamento, dell’ammontare di circa 470 milioni di euro – scrive sempre l’ex ministro nella relazione – è dedicata alla realizzazione di nuove cittadelle giudiziarie e alla riqualificazione delle strutture esistenti, in un’ottica green e di sicurezza sismica”.
A conferma di tale necessità, due esempi concreti. In Calabria il maxi processo “Rinascita-Scott”, figlio di una imponente inchiesta condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, con oltre 350 imputati, ha rischiato di doversi celebrare fuori regione, per mancanza di infrastrutture adeguate ad ospitare tutte le parti in causa. Il dibattimento è iniziato lo scorso gennaio a Lamezia Terme, in un’aula bunker recuperata da un capannone utilizzato in precedenza come call-center.
E che dire del capoluogo pugliese, dove un altro maxi processo, stavolta per il crac della Banca Popolare di Bari – con oltre duemila azionisti costituitisi parte civile – non riesce a prendere il via dallo scorso mese di giugno? Non esistono infatti spazi abbastanza ampi per celebrarlo in osservanza delle norme anti-Covid.
Due considerazioni finali: 1) [CONTINUA A LEGGERE SU La via libera]