12 febbraio 2021 – Il Fatto Quotidiano – di Giuseppe De Marzo, Responsabile nazionale di Libera per le politiche sociali
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Pnrr, messo a punto dal governo Conte è inadeguato alle esigenze e agli obiettivi strategici indicati dal Ngeu per affrontare e superare la crisi economica, sociale, ambientale e sanitaria. Le ingenti risorse messe a disposizione per il nostro paese, circa 224 miliardi di euro, rischiano di essere utilizzati in realtà per scopi opposti agli obiettivi enunciati o di non essere spesi.
Costruire un futuro sostenibile, come in teoria propone il Ngeu, è possibile solo se usciamo dal modello di sviluppo che ha prodotto la crisi economica, sociale, ambientale e sanitaria. Concretamente, significa orientare la base produttiva in modo da garantire allo stesso tempo equità sociale e sostenibilità ecologica: non basta la “narrazione”, c’è bisogno di obiettivi e azioni coerenti.
All’interno di una crisi strutturale e sistemica del modello di sviluppo, l’unica maniera per redistribuire ricchezza, promuovere inclusione sociale e sostenibilità ecologica è attraverso grandi investimenti pubblici e con il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini e delle reti sociali. Solo così possiamo rimettere insieme il diritto al lavoro con il diritto alla salute. In caso contrario difficilmente i lavoratori e le comunità sarebbero disponibili.
La riconversione ecologica delle nostre attività produttive e della filiera energetica non può essere promossa dal centro e dall’alto, ma deve avvenire in maniera decentrata, distribuita e partecipativa. Per raggiungere due dei tre obiettivi principali del Ngeu, sconfiggere le disuguaglianze e promuovere la transizione ecologica, abbiamo bisogno di un altro modello economico, sociale, culturale e relazionale.
Il Covid-19, il collasso climatico e 18 milioni di italiani a rischio povertà sono gli “effetti collaterali” di un sistema economico insostenibile socialmente e ambientalmente. Non sono problemi separati ma conseguenze prevedibili e già annunciate da chi da più di mezzo secolo mette in guardia l’umanità sulla pericolosità del liberismo economico. Uscirne è un imperativo morale se vogliamo vincere le sfide che abbiamo davanti. Altrimenti i soldi del Pnrr non serviranno per sconfiggere disuguaglianze, povertà e crisi ecologica ma rischiano solo di servire per una ridefinizione degli assetti produttivi di grandi interessi privati, spesso distanti dall’interesse e altre volte opachi.
Non è un caso che tutte le volte che c’è un’emergenza o un grande stanziamento di fondi le mafie facciano grandi affari nel nostro paese. Quando la politica è debole, a guidare le scelte non sono gli interessi pubblici, collettivi e sociali. Considerando la fragile struttura sociale italiana, in assenza di interventi che sconfiggano le disuguaglianze, il Covid-19 ha purtroppo rafforzato il potere delle mafie. Il welfare sostituivo mafioso rappresenta ormai l’unica alternativa per molti in un paese in cui i giovani sono i più poveri mai nati. A questo si somma il virus del populismo e del razzismo alimentato dalla frustrazione di decine di milioni di persone a cui non sono date alternative per migliore le proprie condizioni materiali ed esistenziali.
Non basta quindi parlare di sviluppo sostenibile, enunciando parole come “transizione”, “green economy” e inclusione se queste non vengono accompagnate da obiettivi, interventi, fondi, strategie efficaci e azioni coerenti. Il Pnrr presenta ad oggi problemi sia nel metodo che nel merito dei progetti presentati. Sul metodo, gravissima l’assenza di qualsiasi partecipazione dei cittadini e delle reti sociali alla realizzazione del piano e dei progetti. Partecipazione prevista dall’art.3 del Codice di Partenariato europeo, ritenuta indispensabile per ottenere risultati effettivi soprattutto per gli interventi nei territori marginali.
A questo si sommano enormi incoerenze tra quanto indicato nel Pnrr e quanto previsto nei Bilanci ordinari: qual è la logica di regalare ancora decine di miliardi di sussidi alle fonti fossili se si vuole fare la transizione ecologica? Che significa inclusione e lotta alle disuguaglianze sociali se poi non riconosciamo un reddito di base? Se vogliamo spendere i soldi ci deve essere coerenza sugli obiettivi anche nel bilancio dello Stato.
Altro grande problema è legato all’assenza in moltissimi progetti dei risultati attesi, come se bastasse indicare solo gli obiettivi. Ma quello che più emerge, come abbiamo detto in precedenza, è la totale mancanza di visione politica capace di mobilitare la società verso un futuro più giusto, equo e sostenibile. Una lacuna che fotografa in maniera impietosa il fallimento dell’attuale classe dirigente politica, costretta dinanzi alle difficoltà poste dalla crisi a delegare ad un ennesimo governo “tecnico”. Di “tecnico” non c’è nulla quando si decide sul modello economico, sugli assi strategici prioritari attraverso i quali portarlo avanti, su che tipo di transizione promuovere, su quali settori e su quali modelli di inclusione sociale.
Nel nostro paese tutte le volte che c’è una crisi profonda ci si affida ai cosiddetti “tecnici”: Ciampi, Dini, Monti e Draghi. Come se cittadinanza e corpi sociali intermedi non fossero in grado di discutere e decidere. Un approccio infantile e paternalista che non risolve i problemi, li pospone. Depoliticizzare il dibattito rende ancora più fragile la nostra già fragile democrazia.