Dal movimento di Genova 2001 sono nate molte nuove soggettività politiche, dai comitati per l’acqua, a quelli per la difesa dei beni comuni, dalle reti sociali e per il commercio giusto, a chi ha messo in discussione megaprogetti o basi militari o si batte per un nuovo welfare e nuovi diritti, da nord a sud del paese
Di Giuseppe De Marzo – 21 luglio 2001 – La via libera
In questi giorni molti parlano di Genova e sono sempre di più le persone che riconoscono come giuste le denunce e le proposte che quel movimento portava avanti. Il movimento Altermondialista, definito dai media “no global”, non é nato a Genova. Vale la pena ricordarlo per evitare confusioni che rischiano di svilirne il significato storico, la sua straordinaria capacità di innovazione delle forme della democrazia ed il contributo dato alla rigenerazione del pensiero.
Genova per noi
A Genova eravamo parte di un movimento planetario. Nato grazie alle lotte portate avanti negli anni 90 dai movimenti indigeni e contadini che nei Sud del Mondo avevano per primi messo in discussione la globalizzazione neoliberista, quel movimento si è sviluppato ovunque costruendo un punto di vista condiviso sulle grandi questioni del nostro tempo. Il Forum Sociale Mondiale, a partire da quello di Porto Alegre, è stato il luogo in cui intrecciare percorsi, accumulare e diffondere saperi. Dai diritti sociali al collasso climatico, dal welfare alla giustizia ambientale ed ecologica, dal costituzionalismo sperimentale alla necessità di nuove istituzioni sovranazionali, dai trattati commerciali ai diritti della natura. Il grido dei poveri e il grido della Terra insieme, perché siamo un’unica voce. Un nuovo vocabolario di pratiche e linguaggi capaci di costruire un orizzonte comune. Unità nella diversità. Un mondo capace di contenere tutti i mondi.
A Genova anche noi italiani volevamo contribuire a costruire un altro mondo possibile. Sapevamo già che la globalizzazione neoliberista rappresentava la minaccia più grave per la razza umana. Sapevamo già che avrebbe causato la crisi più grave della storia non solo del nostro Paese, come ormai confermano i dati attuali, ma di tutto il pianeta. Sapevamo già che avrebbe determinato l’aumento senza precedenti di povertà, disuguaglianze e precarietà lavorativa. Sapevamo già che quel sistema di morte avrebbe minacciato la nostra salute, provocato milioni di morti, minacciato la nostra salute, causato migrazioni bibliche dovute alla crisi ecologica e minato i diritti delle future generazioni. Sapevamo già che la democrazia rappresentativa andava rafforzata con forme deliberative e partecipative capaci di restituire potere e voce alla cittadinanza. Per questo eravamo a Genova. E sapevamo che da soli, seduti sulle nostre vecchie identità non saremmo stati capaci di costruire il cambiamento necessario. Per questo eravamo tanti. Per questo camminavamo domandando.
Dopo vent’anni, basta ipocrisie
Oggi alla luce dei disastri causati dal modello economico capitalista e in assenza di alternative credibili e praticabili, è ancora più forte la necessità e l’urgenza di un punto di vista altro, di un nuovo paradigma in grado di garantire giustizia sociale, ambientale ed ecologica. Questi erano e sono gli obiettivi del movimento Altermondialista. Venti anni fa, in parte riuscimmo a farci ascoltare da una larga parte della nostra società, mettendo in moto un grande dibattito nel Paese. Aver dimostrato l’insostenibilità sociale e ambientale del pensiero unico, denunciato la mercificazione della vita, rivendicato la necessità di un perimetro più grande rispetto a quello praticato dalla sinistra novecentesca e da un ambientalismo subalterno alle logiche del mercato è stato importante. E continua a esserlo ora. Quella consapevolezza oggi, è resa ancora più forte dalla relazione tra la pandemia e il collasso climatico; dalla perdita di biodiversità che ci espone a rischi per la nostra salute mai visti; dall’insostenibilità ambientale, sociale e culturale del modello economico capitalista che rende le nostre vite, non solo il lavoro, precarie.
Serve sinceramente a poco che oggi una larga parte della politica ci dia ragione. Basta ipocrisie. Compito della politica non è solo amministrare e governare ma soprattutto avere la capacità di intuire i cambiamenti e avere il coraggio di portarli avanti, anche quando sono scomodi e difficili. Alla politica italiana sono mancate non solo intuizioni, capacità e competenze, ma più di ogni altra cosa il coraggio. Per questo non è credibile chi oggi ci dice che avevamo ragione. Perché se fosse davvero così, allora oggi dovremmo aspettarci la riforma del welfare, il reddito di base, la riconversione ecologica (non la transizione del governo della finzione ecologica) per garantire il diritto al lavoro e il diritto alla salute, la riduzione dell’orario di lavoro, la ripubblicizzazione dei servizi basici (a partire dall’acqua, visto che 27 milioni di italiani ancora l’aspettano dopo aver votato in un regolare referendum), nuovi accordi commerciali basati sul rispetto dei principi di equità sociale e sostenibilità ambientale, un cambio nelle alleanze internazionali fondate sulla reciprocità e sul rifiuto della guerra, un piano strutturale per garantire il diritto all’abitare, zero consumo di suolo, la garanzia dei diritti per tutti e tutte, la ristrutturazione del debito pubblico e la cancellazione di quella parte di cui non siamo responsabili, il riconoscimento dei diritti della natura in Costituzione e la fine di tutte le politiche di austerity. E molto altro ancora. Immaginate le reazioni di Confindustria e delle destre (e non solo) al suo servizio.
Allora vinse la repressione
Ma se realizzassimo davvero questo programma, pensate per un attimo alle reazioni di chi soffre, di chi è escluso, discriminato, povero, di chi si batte per un mondo più giusto, dei lavoratori e delle lavoratrici che finalmente avrebbero un lavoro giusto e strutturale, di chi non si può curare, di chi è senza casa, di una madre o di un padre che non riesce a garantire una vita dignitosa alla propria famiglia, di chi lavora per fare un giusto guadagno con la sua impresa senza compromettere i diritti umani e della natura ed è schiacciato dallo strapotere delle multinazionali che ormai hanno guadagni maggiore rispetto a qualsiasi nazione. Questo volevamo. Ed è la quasi totalità della popolazione che ne trarrebbe vantaggio. Allora vinse la sparuta minoranza che attraverso una repressione fuori da ogni regola democratica massacrò quel momento fisicamente prima e qualche mese più tardi dopo l’11 settembre decise di imporre il clima e le regole della guerra globale permanente, cancellando qualsiasi spazio pubblico di dibattito. Spesso addirittura paragonando noi movimenti a terroristi. Certo, con la complicità dei media e di quella parte della politica che ha preferito scomparire in un triste silenzio.
Dicevamo che un altro mondo era possibile. Oggi la realtà dei fatti, a partire dai 6 milioni di italiani e italiane in povertà assoluta e dai 36 miliardari che hanno visto crescere lo scorso anno di 45,6 miliardi di euro i loro mostruosi patrimoni, ci dice che un altro mondo è urgente e necessario se vogliamo un presente e un futuro migliori. Non ci salveranno le richieste di ascolto o di carità rivolte a un sistema inumano e a una classe dirigente collusa, o nella migliore delle ipotesi inadeguata. Non possiamo aspettarci soluzioni da chi ha bisogno di far crescere le disuguaglianze e di sfruttare la Terra oltre le proprie capacità di autorganizzazione e autorigenerazione per continuare a fare profitto. Dobbiamo noi contribuire alla costruzione di un nuovo campo.
Ma il movimento non è finito
È necessario lavorare per fare un passo in avanti culturale fondamentale, come dicevamo a Genova. Una “evoluzione creatrice” necessita di mettere in discussione l’atteggiamento meccanicistico e positivistico della modernità. Quel approccio riduzionista e meccanicista che usa tecnica e scienza come strumenti di potere e sfruttamento. La natura non è una macchina, così come la mente non è solo un prodotto del cervello.
Se guardiamo con attenzione ai giorni nostri cercando qualcosa di Genova, ci accorgiamo che quel movimento non è finito, come in tanti dicono, e non ha perso (non ci eravamo posti come obiettivo la presa del potere o la vittoria alle elezioni), ma si è trasformato. Come del resto tutte le cose che hanno un senso nella vita. Da lì sono nate molte delle nuove soggettività politiche che abbiamo visto in questi anni – magari non mainstream. Dai comitati per l’acqua, a quelli per la difesa dei beni comuni, passando per le reti sociali impegnate in forme di accoglienza diffusa, a quelle che promuovono forme di rigenerazione urbana, alla reti per il commercio giusto, a chi ha messo in discussione megaprogetti o basi militari, a chi si batte per un nuovo welfare e nuovi diritti, da nord a sud del paese. Sino ai ragazzi di Extinction Rebellion, ai Friday For Future, passando per tutti quei nuovi soggetti sociali impegnati in quelle forme di mutualismo che abbiamo visto proliferare spesso come unica risposta concreta durante la pandemia. Tutto questo rappresenta la nostra Geografia della Speranza. Ogni movimento che oggi sta consentendo al nostro Paese di non sprofondare nel baratro dell’assenza di alternative è figlio, anche inconsapevolmente, di quei movimenti per la giustizia ambientale e sociale che all’inizio degli anni Novanta, a partire dai Sud del Mondo, hanno non solo denunciato i limiti del capitalismo ma costruito un paradigma di civilizzazione fondato su una maniera diversa di intendere le relazioni, contribuendo a “ridemocratizzare la democrazia”.
Non basta un modello economico alternativo
Pensare di rimuovere questa memoria o di puntare sulla propria esclusiva identità per cambiare il sistema contribuisce solo a rafforzarlo. Perché il paradigma di civilizzazione occidentale che abbiamo messo in discussione a Genova come in tutto il mondo si nutre di separatezza, frammentazione, individualismo e competizione. Le società in movimento – penso a quelle dell’America Latina – ci hanno spiegato che era proprio quella stessa presunzione il problema alla base del fallimento degli obiettivi della sinistra novecentesca europea, che non a caso oggi è incapace di incidere nella società. Per anni ci hanno spiegato che la liberazione dell’uomo (con buona pace delle donne) dipendeva esclusivamente dalla liberazione dal capitale. Negli ultimi trent’anni invece la realtà ci ha detto altro. Siamo seduti su un gigantesco errore conoscitivo: dobbiamo innanzitutto liberarci da un antropocentrismo radicale che non ci fa comprendere quanto fondamentale per la nostra sopravvivenza ed evoluzione sia riconoscere dignità e rispetto al resto della vita intorno a noi. Pensare di essere sani in un mondo malato è irrealistico, perché la vita è un insieme di “relazioni inseparabili”. Siamo parte del ciclo della vita. Non siamo i migliori. Siamo vita in mezzo alla vita che vuole vivere. Se non riusciamo a riconoscere e allearci con chi difende la vita in ogni sua forma, dai diritti sociali a quelli umani, da quelli della natura a quelli degli animali, saremo spazzati via. Non basta lottare contro il capitalismo. Bisogna allo stesso tempo sconfiggere patriarcato e colonialismo che sono, purtroppo, ancora parte della nostra pessima cultura. Dobbiamo decolonizzare il nostro immaginario per mettere in pratica davvero quello che stiamo imparando.
Siamo dentro una crisi complessa, dove tutte le questioni sono intrecciate. E “Genova”, venti anni fa, lo aveva capito ma gli è mancato l’ultimo pezzo di strada: abbiamo contestato il modello capitalista, indicato la necessità di un’altra idea di sviluppo economico, di un altro modello, ma rimane da fare il lavoro per promuovere tra noi un diverso paradigma di civilizzazione fondato sulla consapevolezza dell’interconnessione e della relazionalità tra tutte le entità viventi.
Non basta un modello economico alternativo. Il vero cambiamento per costruire un altro mondo possibile consiste soprattutto nel lavoro sulle relazioni, la cultura, i linguaggi e le forme della partecipazione, necessarie per decolonizzare quella parte del nostro immaginario che ha nell’antropocentrismo radicale il principale alleato del capitalismo neocoloniale e patriarcale. È questo il lascito più importante e quanto mai attuale del movimento Altermondialista, di cui noi a Genova eravamo e siamo parte: aver messo in discussione il… [Continua a leggere su Lavialibera]