Alla vigilia del prevertice delle Nazioni Unite di lunedì parla Agnes Kalibata, inviata speciale del segretario generale dell’Onu: «Questa è un’occasione unica»
«Con la pandemia il problema della fame nel mondo si è acuito grandemente ma non per questo dobbiamo arrenderci, anzi. Se pensiamo ai bambini e alle donne malnutriti non dobbiamo chiederci se l’obiettivo di mettere fine alla fame nel mondo entro il 2030 è raggiungibile, dobbiamo farlo e basta». Agnes Kalibata, inviata speciale del segretario generale dell’Onu, non ha dubbi: il prevertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari che comincerà domani a Roma e il summit vero e proprio che seguirà a New York a settembre sono «un’occasione che nella vita capita solo una volta». «Stiamo mettendo in moto — spiega — un meccanismo per aiutare i Paesi a guardare ai loro sistemi alimentari, a quello che sta funzionando e a quello che va cambiato». Nella capitale italiana saranno messe sul tavolo duemila proposte arrivate da 400 gruppi di agricoltori, produttori e associazioni.
Nata in Rwanda da piccoli agricoltori che dovettero lasciare la loro terra durante la lotta per l’indipendenza del Paese nei primi anni ‘60 Kalibata è cresciuta in un campo profughi in Uganda dove i suoi genitori coltivavano fagioli e allevavano mucche. Dal 2008 al 2014 è stata ministra dell’agricoltura in Rwanda ed è la presidente della Alleanza per una rivoluzione verde in Africa (Agra), un’organizzazione che ha abbracciato la tecnologia e l’innovazione nella costruzione della produzione agricola e della sicurezza alimentare nel continente.
Quali sono le sue aspettative sul prevertice di domani?
«Spero che i Paesi arrivino con le idee chiare su come vogliono cambiare i loro sistemi alimentari e che formino delle coalizioni tra di loro per affrontare le varie sfide. Abbiamo lavorato 18 mesi per arrivare qui, coinvolgendo migliaia di giovani agricoltori, politici, scienziati».
Pensando alle alluvioni che abbiamo appena visto in Germania quanto pensa che il nostro sistema alimentare pesi sul cambiamento climatico?
«C’è un’ovvia connessione tra il cambiamento climatico e la produzione di cibo, pensiamo che il 53% dei gas serra provengono dal modo in cui produciamo il cibo ma l’agricoltura è anche vittima dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Pensiamo soltanto all’effetto della siccità e delle alluvioni sui raccolti».
A gennaio lei ha scritto una lettera a tutti i membri delle Nazioni Unite invitandoli a riflettere su cos’è il sistema alimentare. Ci può spiegare meglio?
«È molto semplice. Noi non dobbiamo più pensare al cibo come a una forma di sostentamento ma come a un cerchio che produce anche lavoro e crescita economica. Dobbiamo pensare a un sistema che possa funzionare, sfamare tutti, salvare l’ambiente e la diversità. Questo è quello che c’è in gioco».
Il Covid-19 ha peggiorato grandemente la situazione alimentare rendendo l’obiettivo di sconfiggere la fame nel mondo entro il 2030 ancora più difficile da raggiungere.
«In questo senso la pandemia va considerata come un’opportunità per costruire qualcosa di migliore. È un’opportunità che arriva solo una volta nella vita. Abbiamo visto che il sistema alimentare non è in grado di reggere sotto pressione ma la fame nel mondo c’era anche prima, non l’ha creata la pandemia. Ovviamente non c’è una soluzione unica per tutti, l’importante è mettere tutti in connessione, globalmente dobbiamo creare una coscienza poi deve agire ogni Paese».
A questo proposito ogni Paese ha la sua cultura alimentare, come è possibile elaborare delle indicazioni che valgano per tutti? Non pensa che sia importante diversificare?
«Ma certo i sistemi alimentari sono locali, ogni Paese deve definire come vuole cambiarli e si deve prendere la responsabilità di controllare che il sistema funzioni. Per questo ho insistito per coinvolgere i piccoli agricoltori e le comunità indigene che producono il 6-80 per centro del cibo nel mondo. L’iniziativa delle Nazioni Unite ha rilasciato 58 potenziali percorsi per affrontare gli obiettivi di sostenibilità. I gruppi, che sono stati sviluppati attraverso un processo che includeva forum pubblici e consultazioni online, includono l’idea di garantire che i piccoli agricoltori abbiano “accesso alla tecnologia agricola , input e finanziamenti … fornendo così un percorso conveniente e scalabile per aumentare la produttività agricola, oltre la semplice agricoltura di sussistenza».
Per fare una rivoluzione ci vogliono i fondi. Come verrà finanziata questa trasformazione dei sistemi alimentari?
«Ovviamente serviranno degli investimenti sia pubblici che privati. Uno strumento cui penso è quello dei future bonds, molto usati nei Paesi occidentali. Questo sarà uno degli argomenti fondamentali del summit».
Entro la fine del 21mo secolo, si prevede che la popolazione mondiale raggiungerà gli 11 miliardi. A livello globale, nel 2018 una persona su tre era malnutrita, nel 2030 potrebbe essere una su due. È una corsa contro il tempo.
«È un motivo in più per agire subito se non facciamo nulla peggiorerà ancora di più, questo è un problema globale. E’ un’opportunità che arriva solo una volta nella vita. Il numero di persone che non riesce a nutrirsi sale. nel 2021 sono stati 811 milioni».
Qual è l’importanza della tecnologia nella trasformazione dei sistemi alimentari? L’agricoltura industriale viene criticata perché ignora quella ecologica, i cibi organici e le conoscenze indigene. C’è chi teme che il summit vada in una sola direzione. Lei cosa risponde?
«Non abbiamo proposto una soluzione unica, sul campo ci sono 2500 idee diverse. Noi vogliamo dare alle persone la capacità di capire il problema e la possibilità di cambiarlo. Lo scopo è mettere tutti in connessione, creare una coscienza globale e poi lasciare che ogni Paese agisca».