La crisi di estinzione della biodiversità globale non è meno pericolosa e urgente della crisi climatica. Affrontare entrambe è un imperativo.
I tassi di estinzione delle specie viventi aumentano, di anno in anno, a una velocità mai sperimentata, se non durante gli epocali eventi estintivi che hanno segnato la storia della vita sulla Terra. Siamo ormai all’inizio della sesta estinzione di massa, affermano gli scienziati: si tratta di un fatto epocale, il cui impatto non tarderà a farsi sentire. La crisi ecologica, infatti, è già in atto: la diminuzione della complessità degli ecosistemi, causata dalla scomparsa di moltissime specie ogni anno, riduce la loro resilienza, cioè la capacità di rispondere agli shock, e li rende estremamente più vulnerabili.
Per le società umane, questo si traduce in una progressiva perdita di servizi ecosistemici – quei benefici derivanti dal funzionamento dei sistemi naturali di cui usufruiamo gratuitamente, ma senza i quali le nostre società non potrebbero sopravvivere. Un esempio su tutti: la scomparsa degli insetti impollinatori, un rischio sempre più concreto, causerebbe danni ingentissimi all’agricoltura, e avrebbe gravi ripercussioni sulle capacità di approvvigionamento alimentare a livello globale.
Di sesta estinzione si parla da decenni: come è ormai ben noto, è uno dei numerosi effetti collaterali delle tante attività umane dal forte impatto ambientale. L’Agenda 2030, sottoscritta nel 2015 dai 193 Paesi membri dell’ONU, riconosce la protezione della biodiversità come uno dei 17 obiettivi da raggiungere entro il 2030 per evitare che si superino quei famosi punti di non ritorno che potrebbero gettare il complesso sistema planetario in una situazione di caos, rendendo la Terra un luogo sempre meno ospitale per la nostra specie.
Il decennio apertosi quest’anno, che si concluderà con il fatidico 2030, è stato dedicato dalle Nazioni Unite alla rigenerazione degli ecosistemi e alla protezione degli ecosistemi marini. È chiaro che, se si vuole agire, bisogna farlo adesso: come hanno esplicitato con molta chiarezza gli scienziati dell’IPCC, non si può più procrastinare, poiché non ci saranno altre occasioni in futuro.
La Conferenza sulla Biodiversità (COP15) dell’ONU, programmata inizialmente per il 2020 ma posticipata ripetutamente a causa della pandemia, si è finalmente aperta negli scorsi giorni a Kunming, la capitale della provincia cinese dello Yunnan. È la prima volta che la Cina ospita un’iniziativa delle Nazioni Unite, e il fatto che si tratti di un’importante occasione per affrontare la crisi ambientale fa ben sperare, secondo alcuni analisti.
La Cina, infatti, è oggi il più grande emettitore di gas climalteranti, e non ha finora preso seri provvedimenti per affrontare la crisi climatica – se non si considera il generico impegno preso da Xi Jin Ping lo scorso anno di fronte alle Nazioni Unite di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060.
A Kunming, dall’11 al 15 ottobre 2021 si sono ritrovati esponenti della comunità scientifica internazionale e decisori politici, con gli obiettivi di aggiornare il testo della Convenzione per la Biodiversità e di delineare le azioni da intraprendere per i prossimi anni. Il risultato della prima settimana di incontri (la seconda parte della COP si terrà a maggio 2022) è stato una prima Dichiarazione, sottoscritta dai ministri partecipanti all’evento, che puntualizza, attraverso una serie di “Impegni”, il tema portante della Conferenza delle Parti: “Una civilizzazione ecologica: costruire un futuro condiviso per ogni forma di vita sulla Terra”.
Ma cosa si intende per “civilizzazione ecologica”? Come riporta il Guardian, si tratta di uno slogan in cui è condensata la prospettiva d’azione ambientale del governo cinese, e al quale il presidente Xi ricorre spesso. La Cina, con un’economia oggi in piena espansione, non vuole certo rinunciare alla crescita e alla promessa di sviluppo e benessere materiale che da essa deriva. Tuttavia, la necessità di affrontare le questioni ambientali è sempre più pressante, e non può essere ignorata. La ricetta di Pechino sembra consistere – stando al discorso (registrato) pronunciato da Xi nel corso della Conferenza dei giorni scorsi – in un modello di sviluppo sostenibile non diverso da quello adottato da molti Paesi occidentali, in cui, pur mettendo in atto misure di protezione degli ecosistemi, di riduzione delle emissioni e di efficientamento tecnologico, si cerca con ogni mezzo di non rinunciare alla crescita economica.
Durante i prossimi mesi, nel corso dei quali le parti (politici, scienziati, attivisti, diplomatici) dovranno negoziare i termini dell’accordo che determinerà gli obblighi internazionali per la tutela della biodiversità e la rigenerazione degli ecosistemi, la Cina potrebbe ricoprire un ruolo primario. Tra le Parti contraenti della Convenzione per la Biodiversità, infatti, c’è un grande assente: gli Stati Uniti sono l’unico Stato (oltre alla Città del Vaticano) a non aver ancora ratificato l’accordo e, di conseguenza, a non sedere al tavolo dei negoziati. Nonostante l’amministrazione Biden sembri voler attuare misure di protezione ambientale (gli USA sono tra i promotori dell’accordo 30×30, con l’obiettivo di porre sotto protezione il 30% degli ecosistemi globali entro il 2030), questa assenza ha un peso sul piano geopolitico, e lascia alla Cina ampio spazio per proporre la propria visione di tutela ambientale e sviluppo sostenibile.
La Dichiarazione (provvisoria) rilasciata alla fine di questa settimana di negoziati in presenza è però, secondo i commentatori, una parziale delusione: dei 21 punti che costituivano la bozza presentata a luglio dalla CBD, non tutto è stato recepito, e gli “Impegni” finora sottoscritti sembrano piuttosto vaghi, privi di obiettivi quantificabili e di scadenze definite. Proteggere la natura è costoso, e ingenti investimenti finanziari non sembrano all’orizzonte. Ma la crisi di estinzione della biodiversità globale non è meno pericolosa né meno urgente della crisi climatica, e ad essa è legata a doppio filo. Affrontare entrambe è un imperativo.
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La Conferenza sulla Biodiversità in Cina e la retorica della “civilizzazione ecologica”