Solo una politica climatica che assuma l’uguaglianza come priorità può affrontare alla radice le cause del riscaldamento globale. Pubblichiamo un estratto dal volume “A planet to win. Perché ci serve un Green New Deal” di Kate Aronoff, Alyssa Battistoni, Daniel Aldana Cohen e Thea Riofrancos (Momo edizioni)
K. Aronoff, A. Battistoni, D. A. Cohen, T. Riofrancos–
Il vero «sogno verde, o quello che è» – per prendere in prestito l’espressione di Nancy Pelosi – è credere che il falso green new deal funzionerà [1]. Un argomento semplice struttura questo libro: un Green New Deal efficace non può che essere un Green New Deal radicale.
Quando parliamo di un Green New Deal radicale non intendiamo una posizione estremistica. Il nostro termine «radicale» deriva dal latino radix, che significa «radice»: un cambiamento radicale è un cambiamento sistemico che affronta le cause alla radice dei problemi piuttosto che occuparsi semplicemente dei loro sintomi. È davvero un obiettivo troppo ambizioso per cui combattere negli Stati Uniti? Noi condividiamo la dichiarazione fatta da Ocasio-Cortez su 60 Minutes: «Sono state sempre le personalità e i movimenti radicali a cambiare questo paese» [2]. Pensiamo che un Green New Deal radicale sarebbe anche un Green New Deal popolare. Aspiriamo a costruire una politica climatica per il 99% della gente, cioè per le masse popolari e multirazziali, contrapposte a una ristretta élite, che chiedono giustizia per tutti in un pianeta vivibile.
Più concretamente, che cosa vuol dire andare alla radice del cambiamento climatico?
In primo luogo, noi prendiamo la scienza sul serio e fissiamo i nostri obiettivi politici di conseguenza. La logica, propria del falso green new deal, di obiettivi più graduali per un cambiamento più lento, di fatto accetta un riscaldamento globale di 3°C, implicando così rischi ancora maggiori se le ripercussioni climatiche si manifestano rapidamente. Il nostro obiettivo è un tetto massimo di 2°C di riscaldamento globale, puntando ad avvicinarci il più possibile al limite di 1,5°C. Inoltre, mentre il falso green new deal si serve di incentivi fiscali e segnali di prezzo [3] quali sue leve economiche, il Green New Deal radicale si avvarrebbe del potere dell’investimento e del coordinamento pubblici per dare massima priorità a una decarbonizzazione adeguata alla velocità, alla portata e all’ampiezza delle sfide climatiche. E mentre il falso green new deal si focalizza a malapena sul sostituire qualche combustibile fossile con energia «pulita», noi vediamo la questione energetica come interconnessa con sistemi materiali più ampi e con le disuguaglianze sociali. Un Green New Deal radicale affronta le inevitabili intersezioni tra politica sociale, economica e ambientale e assume l’uguaglianza come priorità.
Infine, il finto green new deal vede la portata e l’ambizione di un Green New Deal radicale come non conveniente dal punto di vista politico. Il finto green new deal cerca di raggiungere il cambiamento attraverso la massimizzazione del consenso delle élite e l’elaborazione di politiche nell’ombra. All’opposto, noi vediamo l’ampliamento della politica climatica come un vantaggio politico: si tratta di un’opportunità per costruire un sostegno maggioritario a favore di un cambiamento ampio e sostanziale e mobilitare energie politiche per rompere lo status quo. Cerchiamo di spiegarlo in maniera più approfondita.
Partiamo dalla nostra priorità principale: evitare il collasso climatico. Non conosciamo con esattezza il grado di sensibilità del sistema climatico. Elaborare piani che puntano a un riscaldamento globale di 2,5° o 3°C, come implicitamente fa il gradualismo del finto green new deal, vuol dire accettare impatti devastanti nei paesi del Sud globale e rischiare di arrivare a un apocalittico 4,5°C. Perciò noi miriamo direttamente a un 1,5°C. Meglio mancare di pochi anni un piano massiccio di decarbonizzazione del settore energetico al 2030, piuttosto che mancare un obiettivo più lento e modesto al 2040, fallire il quale produrrebbe conseguenze più gravi. Per quanto negli Stati Uniti si sta assistendo a fenomeni meteorologici sempre più devastanti, nel breve termine sono i paesi africani e asiatici a subire l’impatto maggiore di un riscaldamento globale di 3°C. Non siamo disposti a lasciare che ciò accada giusto per agevolare la vita a Exxon Mobil e a Wall Street. E siamo più allarmati per il bilancio delle emissioni che per il deficit di bilancio. Il nostro assunto di base è il consenso scientifico sul fatto che il decennio in corso richiederà, come sostiene un recente saggio apparso su «Science», sforzi «erculei» di trasformazione dell’economia [4]. Cambiamenti di tale portata non sono la specialità dei mercati. Per abbattere rapidamente le emissioni climalteranti, dobbiamo assumere il controllo pubblico e, soprattutto, democratico di gran parte dell’economia affinché un’azione per il clima socialmente equa sia messa al primo posto. Ricordiamocelo: i capitalisti investono in progetti allo scopo di fare profitti e consolidare il loro potere, non per rendere il mondo un posto migliore. Se quest’ultima cosa si verifica, si tratta di un fortunato quanto eccezionale effetto collaterale. Anche se alcuni manager aziendali si preoccupano per il mondo che attende i loro nipoti, non sacrificheranno mai i profitti per abbattere le emissioni climalteranti. Se lo facessero, gli azionisti li rimpiazzerebbero.
Il falso green new deal cerca di indirizzare gli investimenti capitalistici per il miglioramento del clima principalmente verso finanziamenti in ricerca e sviluppo, blande sovvenzioni e la tassazione delle emissioni di CO2. I suoi fautori vedono una carbon tax come il motore principale per orientare il settore privato verso investimenti a minor impatto in termini di emissioni e incentivare sia le aziende sia i consumatori alla decarbonizzazione. Intendono inoltre dare priorità alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie, come la produzione su vasta scala di energia geotermica, alle alternative alle proteine animali e alla cattura diretta della CO2 dall’aria. Siamo d’accordo riguardo al potenziamento della ricerca e sviluppo. Ma questo non può in alcun modo sostituirsi a una forte accelerazione dello spiegamento dell’eccellente tecnologia pulita di cui già disponiamo.
Appoggiamo anche una carbon tax progressiva, con una riduzione per le persone a basso e medio reddito. Una modesta tassa sulle emissioni può contribuire a eliminare il carbone, la cui industria è già in forte crisi. Se ben concepita, può contribuire ad allontanare le persone dal consumo di prodotti ad alta intensità di CO2, incoraggiandoci a spendere il nostro denaro supplementare in lezioni di ballo invece che in un nuovo iPad, e può incentivare le agenzie governative e le aziende a pianificare investimenti a lungo termine che tengano conto dei cambiamenti climatici. Ma la tassazione delle emissioni è uno strumento secondario, un complemento delle nostre leve principali che sono la spesa pubblica, il coordinamento e la regolamentazione pubblici, tutte volte a migliorare il tenore di vita generale. Senza delle alternative a emissioni zero accessibili, aumentare il prezzo del gas causerà soltanto un enorme contraccolpo politico. Tassare le emissioni è anche una strategia curiosamente indiretta per un cambiamento rapido. Come ha ironizzato il giornalista David Roberts, durante una conferenza a Philadelphia nel 2018, gli Stati Uniti non sconfissero i nazisti tassando le fabbriche che non producevano aerei e carri armati per lo sforzo bellico.
Affinché gli Stati Uniti raggiungano un livello netto di emissioni climalteranti pari a zero nel settore energetico entro la metà dei prossimi anni Trenta, il paese deve sviluppare nuova energia pulita a una velocità almeno dieci volte superiore a quella degli ultimi anni. Unitamente a ciò, occorrono investimenti pubblici nel ripristino degli ecosistemi, in infrastrutture ecocompatibili e in lavori di manutenzione. Si tratta di misure che richiederebbero un’enorme quantità di lavoro e quindi creerebbero milioni di posti di lavoro ecosostenibile di alta qualità. Semplicemente non esistono precedenti in cui il settore privato si sia mobilitato in modo così ampio e rapido. Con il sostegno dello Stato, i capitalisti green hanno sviluppato tecnologie per la produzione di energia pulita a basso costo ed efficaci. Ma se è vero che le aziende solari possono gradualmente sbaragliare il carbone, esse non possono promulgare leggi che lo aboliscano o trasformare la rete elettrica e il sistema energetico nel suo complesso.
Nel quadro di un Green New Deal radicale, sarebbe il settore pubblico a indirizzare gli investimenti e a coordinare la produzione, similmente a quanto avvenne negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Le burocrazie governative sono in grado di gestire un lavoro così complesso? Ne furono capaci settantacinque anni fa, quando lavoravano ancora con blocchetti di carta e lavagne a gessetti. Negli anni Quaranta, agenzie pubbliche improvvisate, l’esercito e imprese sovvenzionate dal governo accrebbero la produzione di macchine di sterminio a una velocità impressionante. L’industria sostenuta dallo Stato costruì la più grande fabbrica del mondo in meno di un anno vicino a Ypsilanti, Michigan, e passò a produrre un bombardiere B-24 all’ora. Da un giorno all’altro, fabbriche di sedili per auto si riconvertirono alla produzione di paracadute e le catene di montaggio della Cadillac iniziarono a sfornare carri armati [5]. Ci piacerebbe avere a disposizione un’analogia diversa da quella con la Seconda guerra mondiale per un’azione pubblica di queste dimensioni e portata. Ma il punto resta: costruire – e spingere – un settore pubblico capace di organizzare una transizione rapida e giusta si può. Spesso ci si dimentica, inoltre, del fatto che le capacità amministrative dello Stato sono state sviluppate nel decennio precedente alla Seconda guerra mondiale attraverso il New Deal. I neoliberisti hanno passato poi quarant’anni a intaccare pezzo a pezzo queste capacità amministrative, indebolendo le normative e molte agenzie federali per accrescere il potere della grande impresa. Ricostruire e rinvigorire le istituzioni pubbliche è uno dei compiti più importanti che dobbiamo affrontare oggi.
Gran parte di ciò che proponiamo si chiama politica industriale. È diffusa in Europa, nell’Asia orientale e sudorientale, e non solo; ed ha fatto la sua comparsa anche nelle storie di successo dell’ARRA (l’American Recovery and Reinvestment Act del 2009). Più in generale, negli Stati Uniti, la ricerca militare finanziata dallo Stato ha generato la maggior parte delle tecnologie in uso negli smartphone, come il GPS, Internet e i microprocessori. Il National Institute of Health e il programma Advanced Reasearch Projects Agency-Energy (ARPA-E) del Dipartimento dell’Energia finanziano regolarmente innovazioni pionieristiche. La maggior parte dello sviluppo infrastrutturale combina già investimenti pubblici e privati. Grandi Stati come la California e New York stanno già sperimentando strumenti di Green New Deal, quali, ad esempio, normative incisive, green bank e il convogliamento di investimenti verdi verso le comunità emarginate.
La partecipazione popolare sarà essenziale per assicurare che questa «mobilitazione» statale su vasta scala non calpesti la vita delle persone. Più potere allo Stato non deve necessariamente significare burocrazia e controllo dall’alto verso il basso. I sindacati, le organizzazioni non profit e gruppi comunitari dovrebbero tutti contribuire a guidare la transizione. Come in Germania, potremmo incoraggiare la costituzione di cooperative energetiche di comunità per la produzione e distribuzione decentrata di energia solare ed eolica onshore. Nelle comunità lavoratrici (che negli Stati Uniti sono prevalentemente di colore), gli investimenti pubblici potrebbero essere progettati in modo da dare agli abitanti il potere di prendere le decisioni che riguardano la produzione e indirizzare i fondi verso le loro necessità.
Tutto questo contribuirebbe a riorientare lo Stato dal perseguimento della repressione e dell’incarcerazione di massa verso l’obiettivo di favorire il benessere della collettività.
Inoltre, andrebbero potenziate istituzioni non di mercato che siano responsabili di fronte alle comunità territoriali e gestite dalle stesse, non dai governi – come, ad esempio, cooperative e servizi di credito pubblici, community land trust [6] e cooperative di lavoratori. E accoglieremmo con favore la co-proprietà di grandi aziende private da parte dei lavoratori, attraverso soluzioni come i cosiddetti «fondi di proprietà inclusiva» di cui si sta dibattendo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Progetti finanziati con fondi nazionali sarebbero gestiti dalle comunità locali – fototeche come centri di resilienza, orti comunitari che impiegano gli abitanti di uno stesso quartiere e cooperative di appalto dei lavori di efficientamento energetico delle case. Il punto non è conferire più potere allo Stato per favorirne la centralizzazione, ma per una spesa pubblica che conferisca alle comunità territoriali a vari livelli il potere di meglio determinare la propria vita.
In ultima analisi, l’approccio del «prima-la-tassa-sulle-emissioni» proprio dei promotori del falso green new deal postula che la soluzione della crisi climatica passi da un approccio microeconomico, quando in realtà ciò di cui abbiamo davvero bisogno è una nuova economia politica. Scongiurare la catastrofe significa trasformare il consumo e la produzione, dando priorità a beni e servizi pubblici condivisi che migliorano la qualità complessiva della vita rispetto al consumo di robaccia a buon mercato, la cui produzione richiede alte emissioni di gas serra e di cui non abbiamo bisogno. Certo, dovremmo tutti mangiare meno carne e volare meno spesso per divertimento. Ma dobbiamo cambiare collettivamente – e, per questo, abbiamo bisogno di alternative a emissioni zero. Sarebbero le amministrazioni pubbliche a guidare il grande cambiamento, fornendo occupazione ecosostenibile al posto dell’imposizione di lavoro distruttivo per l’ambiente; costruendo alloggi pubblici sicuri e garantiti a tutti, parchi verdi e campi da gioco; ed espandendo i servizi a emissioni zero come l’assistenza sanitaria e l’istruzione gratuite. Come spieghiamo nel corso del libro, investire in uguaglianza non è semplicemente un accessorio, una spolveratina di buoni sentimenti: è la nostra leva più efficace ed efficiente per l’abbattimento delle emissioni climalteranti e per rendere la buona vita compatibile con un minore consumo di risorse.
Dovranno essere i ricchi a pagare i costi della crisi climatica da loro prodotta e quindi sostenere economicamente il peso della transizione. Hanno goduto praticamente di tutti i benefici della crescita economica per decenni, e li hanno spesi sontuosamente. A livello mondiale, il 10% dei più ricchi è responsabile della metà del bilancio complessivo delle emissioni di CO2 [7]. Negli Stati Uniti, il decimo più ricco della popolazione è responsabile di un quarto delle emissioni [8]. Ridurre i consumi di questa fascia della popolazione avrebbe un impatto ecologico molto maggiore di qualsiasi altra azione che il resto di noi possa compiere individualmente. Il climatologo Kevin Anderson stima che se il 10% più ricco del mondo consumasse allo stesso livello di un europeo medio, le emissioni mondiali di CO2 diminuirebbero di circa un terzo [9]. I ricchi inoltre convogliano i miliardi che non consumano in investimenti che riducono considerevolmente la nostra porzione di mondo in comune – da appartamenti di lusso disabitati a New York e San Francisco a capitali di rischio dati in pasto a società di ridesharing che soppiantano i nostri trasporti pubblici.
Per riutilizzare, riciclare e – cosa più importante – ridistribuire risorse e ricchezze in modo massiccio, un Green New Deal radicale esigerebbe tasse più elevate sui patrimoni, le successioni e i redditi più alti per abbattere i consumi privati di beni di lusso e contribuire a finanziare beni e servizi di lusso pubblici.
Un progetto così monumentale richiederà molto di quel che spesso viene definito «volontà politica», o che noi preferiamo chiamare potere politico. È qui che la differenza tra la nostra visione e quella del falso green new deal si fa più evidente. Le élite politiche «verdi» spesso danno per scontato che il cambiamento venga dall’alto: se soltanto una manciata di politici fosse abbastanza coraggiosa da assumere la guida dell’azione per il clima, la gente li seguirebbe. Noi pensiamo che funzioni esattamente in senso inverso.
Le narrazioni elitiste sul cambiamento climatico spesso insinuano che la gente comune non è in grado di comprenderlo e che essa non si sacrificherà mai per il bene delle generazioni future o di genti altre e lontane. Ma noi pensiamo che il vero problema sia che la gente comune è stata spogliata del suo potere. A partire dagli anni Settanta, le grandi classi imprenditoriali statunitensi hanno schiacciato i sindacati – uno dei nostri più importanti veicoli di uguaglianza. La percentuale di lavoratori rappresentati dai sindacati è stata dimezzata; nello stesso periodo, i salari reali dei lavoratori hanno ristagnato, anche se la produttività degli stessi è aumentata. La quota di reddito che va al 10% più ricco è quasi raddoppiata, e l’1% ha registrato un incremento di reddito persino superiore. Si è trattato di un cambiamento non soltanto economico ma anche di ordine politico. I super-ricchi hanno accresciuto enormemente il loro controllo sui partiti politici, riscrivendo le leggi a ogni livello di governo a proprio esclusivo vantaggio.
Con lo smantellamento dei sindacati e del potere statale, l’élite del paese ha inoltre rafforzato la grande impresa e il settore dei combustibili fossili. Le principali associazioni capitalistiche statunitensi – la Business Roundtable, la Camera di Commercio degli Stati Uniti, la National Association of Manufacturers, ecc. – hanno contribuito a far concedere alle Big Oil agevolazioni fiscali e deroghe normative; anche i Democratici hanno dato una mano.
Per spezzare il potere delle élite dominanti e imporre priorità di carattere pubblico all’economia, occorre costruire una coalizione di massa della gente comune. La ricostruzione del potere politico pubblico richiede di affrontare le disuguaglianze e le divisioni che il capitalismo semina tra le famiglie lavoratrici degli Stati Uniti e in tutto il mondo. Le cose vanno oramai talmente male che la maggior parte degli americani è pronta per il cambiamento, come i recenti tumulti socio-politici dimostrano chiaramente. Un Green New Deal radicale non cerca di eludere tutta questa energia politica dal basso che i movimenti popolari esprimono ma al contrario si fonda su di essa in favore del bene comune.
Perché un Green New Deal efficace non può che essere radicale