Taranto, l’Ilva e la nostra riconversione culturale

Con il decreto Milleproroghe il governo Draghi vuole destinare parte dei fondi sequestrati alla famiglia Riva per consentire ad Acciaierie d’Italia, che attualmente gestisce l’ex Ilva, di restare in vita puntando alla decarbonizzazione. E non solo per la bonifica ambientale dei siti, come previsto originariamente. Intervista a Michele Riondino, attore da tempo impegnato contro la fabbrica e il binomio lavoro-salute

10 dicembre 2021 – Piero Ferrante – redattore Gruppo Abele

Aggiornamento: Nel decreto Milleproroghe il governo Draghi ha inserito una norma che prevede che una parte dei fondi sequestrati alla famiglia Riva, 575 milioni, potranno essere utilizzati per consentire ad Acciaierie d’Italia, che attualmente gestisce l’ex Ilva di Taranto, di continuare a produrre acciaio e restare in vita puntando alla decarbonizzazione. E non solo per la bonifica ambientale dei siti, come previsto originariamente. 

Con Michele Riondino ci incontriamo il 20 luglio. Siamo a Roma, al Pigneto, un quartiere che si dà un tono da avanguardia ma che, dietro l’imbellettatura, nasconde un’anima proletaria. Riondino arriva vestito con la camicia a maniche corte a fiori aperta in basso, un cappellino all’americana e gli occhiali da sole. Mi sento spiazzato. L’immagine che ho di lui si associa alle camicie sempre ben stirate de Il giovane Montalbano, la serie tv Rai del 2012 di cui è stato protagonista. Il potere dei luoghi comuni fa a botte con la praticità e con la natura delle cose, spesso. La conversazione che ne segue – finita in Senza padroni. Taranto, l’Ilva e il palcoscenico (Edizioni Gruppo Abele, 2021) –  è un flusso di coscienza che intreccia vita privata e pubblica di un uomo che ha scelto di schierare talento e notorietà: “un animale profondamente politico”, come si definisce lui.

Attore, 42 anni, figlio di un operaio dell’Ilva, Riondino ha contribuito a fondare a Taranto il comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti che dal 2012 riunisce operai dell’acciaieria, precari, studenti e cittadini che vogliono essere al centro di ogni decisione politica sul futuro della città. Dal 2013 il comitato organizza il concerto dell’Uno maggio libero e pensante, di cui Riondino è direttore artistico assieme al cantautore Diodato e al trombettista Roy Paci.
Riondino, cosa rappresenta Taranto per te? 
È l’alfa e l’omega: l’inizio di tutto e la fine di tutto. Dal rifiuto di Taranto nascono i miei sogni di fuga e di conoscere altro, il sogno della mia professione, il teatro e le amicizie. Dal compimento dei 15 anni ho contato, uno a uno, i giorni che mi separavano dal diciottesimo compleanno, il momento in cui avrei avuto il diritto alla fuga. Ma dal ritorno a Taranto nascono anche esperienze bellissime di lotta e di resistenza artistica e culturale.
Nella tua autobiografia, Rubare la vita agli altri (Fandango, 2012), dici di amare il quartiere in cui sei nato, intitolato a Paolo VI. 
Paolo VI dista dal centro di Taranto 12 chilometri, come se manco fosse periferia, ma altro. Il nome lo deve al Papa che, a Natale del ’68, celebrò una messa per gli operai dell’Ilva, all’epoca ancora Italsider. È una di quelle zone che nel lessico frettoloso di certi media saturi di pregiudizi e luoghi comuni è catalogato come “quartiere a rischio”. Ma sarebbe meglio dire “quartiere messo a rischio”. Per me è stato luogo tanto di scapicolli che di maturazione umana. Le scene di allora le rivedo ancora: noi, bambini, a giocare a pallone in una landa spelacchiata e i tossici a raccattare le dosi dentro le aiuole, dove gli spacciatori le depositavano.
E l’Ilva?
Da qualunque parte ti giri, qualunque sia la tua prospettiva, la zona in cui stai, la fabbrica c’è. La sua presenza è costante, ossessiva. È un’invasione.

Ogni invasione provoca una reazione di difesa.
Dovrebbe, certo. Ma proprio qui sta il nostro peccato originale di tarantini: ci siamo abituati a quella presenza. Chi non ci è cresciuto non può fare a meno di notarla tutto il tempo. Per i tarantini invece il tramonto o è col camino E512 o non è tramonto. La morte e la malattia a Taranto sono più normali del nascere a Taranto.

Per decenni la questione Ilva è stata una faccenda privata dei tarantini. Poi è arrivato il luglio 2012, la svolta nel processo Ambiente svenduto, il sequestro degli impianti dell’area a caldo.
Un boato. Ricordo bene il momento in cui lessi dai giornali la notizia. Ero in Sardegna, alle prese con una decisione difficile: fare o non fare la serie televisiva del commissario Montalbano. Leggendo, sentii un senso di sommovimento in pancia: la storia poteva cambiare, niente era perso. Taranto tornò prepotente, come una storia di famiglia finita male. Ripresi contatti andati sfumati e provai a capire cosa si poteva fare per portare quella voce a un livello più alto: schierai a favore della causa la piccola porzione di notorietà che avevo acquisito come attore.

In quell’estate cambia il modo di lottare di Taranto tutta.
Il 2 agosto Cataldo Ranieri (per oltre 20 anni operaio dell’Ilva, tra i fondatori del comitato Cittadini liberi e pensanti, ndr) a bordo di un tre ruote entra in piazza della Vittoria dove Cgil, Cisl e Uil stanno facendo un comizio contro la magistratura, a favore dell’azienda dei Riva, di un lavoro malato. E pronuncia le parole che ci cambieranno per sempre, parole che molti tarantini conoscono a memoria: “Non cominciamo il nostro intervento da egoisti, parlando solo a nome dei lavoratori. No, io dico Taranto”. La prospettiva cambia, il comitato smette l’abito del conflitto lavoro-salute e veste quello dell’interesse pubblico.
E tu? 
Io torno nella mia città in quel momento. Grazie al rapper tarantino Fido Guido conosco il comitato e mi schiero al loro fianco.
Come si arriva all’idea del concerto dell’Uno maggio? 
Il concerto del 2013 è stato il punto d’arrivo di un lungo cammino di libertà cominciato il 2 agosto del 2012. Il comitato era reduce da una serie di manifestazioni di piazza molto partecipate e serviva una cassa di risonanza più alta, che facesse clamore e puntasse i fari diritti sulla città. “Facciamo un concerto”. La proposta è arrivata così, senza fronzoli. Ho assunto subito la direzione artistica della manifestazione, affiancato poi, negli anni successivi, da Roy Paci e da Diodato. Volevamo dare casa e voce ai musicisti e alle istanze di cambiamento di chi non si sentiva più rappresentato dalla piazza di sindacati (quella di San Giovanni a Roma, ndr) che scelgono come sponsor per la manifestazione della festa dei lavoratori le multinazionali dei combustibili fossili, quelli che ammazzano Taranto e i tarantini. È stato un atto politico in forma artistica.
Com’è andata?
Eravamo spaventati. Da Roma arrivavano le solite immagini della piazza festante, con i sindacati a protestare per il nostro contro-concerto. Alle 14 salgono sul palco i Sud sound system, i primi a cantare. In quel momento c’erano, a dir tanto, 150 persone. Ma col passare dei minuti la piazza si è riempita. Arrivavano pullman a non finire: da Lecce, Bari, dalla Basilicata, dalla Calabria. Più scendeva il sole più salivano al cielo le bandiere, le voci, il livello della musica. Da Roma diversi musicisti hanno cominciato a salutare Taranto.

Un’emozione immensa.
Ti racconto un aneddoto. A un certo punto vediamo scomparire Tonio, il batterista della mia band: gli era venuta una crisi di pianto che aveva liberato isolandosi dietro un bagno chimico. Il nostro sogno di parlare attraverso la musica, il nostro sogno di musicisti e di militanti si stava realizzando. Più la gente invadeva Taranto, meno soli ci sentivamo. La vertenza non era più solo di Taranto, sempre che mai lo fosse stata, perché diventava vertenza nazionale. In più, stavamo cambiando le carte in tavola, rendendo manifesto il fatto che anche con la cultura si poteva fare massa, addirittura sostenersi economicamente. Una bestemmia per una città fondata sul vapore. Con l’Uno maggio abbiamo messo in moto una riconversione mentale.

Dalla prima edizione sono passati anni e molti artisti. 
Se scorri i nomi, scopri artisti che sono saliti sul palco da esordienti e che poi, con il tempo, hanno conquistato la notorietà. Segno che facciamo una grande attenzione alla parte qualitativa. La bellezza. È la bellezza quello che ci è sempre interessato. La stessa bellezza che a Taranto viene negata, noi proviamo a restituirla, come principio artistico e come principio politico. In definitiva anche questo è proporre un sistema alternativo a quello della fabbrica, no?
È un’alternativa reale?
Non sono solo parole. Con l’associazione Afo6 e con Apulia film commission stiamo portando avanti il progetto del cineporto di Taranto. Un ex deposito di carrozze tra città vecchia e Tamburi (il quartiere dell’acciaieria, ndr), riconvertito in centro di produzione. Lì sta nascendo la Palestra per l’attore, una scuola di formazione gratuita in collaborazione con l’associazione Artisti 7607. E sempre lì stiamo mettendo in piedi un centro di didattica per tutti i mestieri dell’audiovisivo.
Qual è la risposta della politica tarantina a questo progetto? 
Interessata. Ma non in senso alto, in maniera strumentale. C’è chi cerca di accaparrarsi questo impegno per tornaconto elettorale e io non voglio che qualcuno faccia campagna elettorale sulla mia pelle e sul mio impegno. Michele, da tarantino, da personaggio pubblico, da uomo, da cittadino, mette il suo mestiere e quel poco di notorietà esclusivamente a servizio di un’idea sociale.

E questa cosa come viene vista?
Male, malissimo. A Taranto funziona tutto a compartimenti stagni. Se fai l’attore devi stare zitto e fare l’attore. Se sei un cantante la voce la devi usare per cantare i tuoi pezzi e basta. Il tuo diritto alla cittadinanza è ridimensionato. Tu, Riondino, recita, fai Montalbano, facci ridere, risolvi i casi e lascia la politica ai politici.

Nonostante le lotte, la fabbrica non si è mai fermata, anche grazie all’arrivo nel 2017 del colosso indiano ArcelorMittal. È possibile ripensare la fabbrica? 
Mi fa ridere chi pensa che l’Ilva possa essere riconvertita. La fabbrica è in ritardo tecnologico di decenni. Non lo dico io, lo dicono gli studi, la comparazione con altri stabilimenti e le ripercussioni ambientali.
E quindi?
Esiste un’alternativa. E come ogni alternativa vera, che segna una strada, richiede tempo e scelte drastiche. Innanzitutto bisogna accettare che Taranto rinasce solo se chiude lo stabilimento una volta per sempre. Gradualmente, ma rinunciando all’acciaio come condizione di partenza. Basterebbero tre miliardi per bonificare l’area generando trentamila posti di lavoro per almeno tre decenni. Se pensiamo che, finora, per il solo salvataggio dell’Ilva sono stati spesi cinque miliardi di euro e che il risultato consiste in morti, cassintegrati, scuole chiuse, ospedali pieni, veleni, veleni e ancora veleni, direi che il vantaggio, sociale ed economico, è sotto gli occhi di tutti.
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