Il quadro tracciato in un Rapporto stilato dagli esperti nominati dal ministro del Lavoro Orlando è peggiorato negli ultimi anni per la crescita abnorme dei contrattini. Cinque proposte, tra queste: salario minimo legale e in-work benefit, integrazione dei salari bassi.
di Valentina Conte – 18 gennaio 2022 – Repubblica
Un quarto dei lavoratori italiani ha retribuzioni talmente basse che rischia di finire in povertà, sotto i 12 mila euro all’anno. E quando ci finisce, la metà di questi resta povero: percentuale salita al 60% con la crisi Covid. L’Italia è il quarto Paese per lavoro povero in Europa – 11,8% del totale contro una media Ue di 9,2% – dopo Romania, Spagna e Lussemburgo: diffuso e persistente. Percentuale che inganna, perché si sale al 22% tra chi lavora a part-time. La povertà in Italia è una trappola.
La crescita abnorme dei contrattini da poche ore e settimane è tra le cause principali del lavoro povero italiano. Ecco perché il documento degli esperti chiamati dal ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) a fare un quadro nazionale suggerisce due strade, tra le altre, per uscirne: salario minimo legale e in-work benefit, un’integrazione al reddito povero che metà dei Paesi Ocse ha. Non l’Italia.
Il Rapporto consegnato al ministro è molto dettagliato e allarmante. Non si limita all’analisi, avanza cinque proposte. I firmatari sono economisti, giuslavoristi, sociologi: Andrea Garnero (Ocse), Silvia Ciucciovino (università Roma Tre), Romolo de Camillis (ministero del Lavoro), Mariella Magnani (università di Pavia), Paolo Naticchioni (Inps e università Roma Tre), Michele Raitano (università La Sapienza), Stefani Scherer (università di Trento), Emanuela Struffolino (università di Milano).
La povertà lavorativa è una “catena”, dicono gli esperti. Dipende da un livello di salario insufficiente, ma non solo. Dai tempi di lavoro e dunque dai contratti: quante ore, settimane, mesi lavorati in un anno. Dalla composizione familiare: quanti altri percettori ci sono nel nucleo. Dall’azione di redistribuzione dello Stato, non sempre efficiente tra bonus e sussidi. Gli 80 euro e la disoccupazione parziale non hanno funzionato del tutto. Anche il Reddito di cittadinanza – una forma di reddito minimo – aiuta, ma non risolve per come è strutturato.
Un quarto dei lavoratori italiani ha retribuzioni basse (sotto al 60% della mediana), si legge nel Rapporto. Uno su dieci è povero: secondo la definizione di Eurostat significa che ha lavorato almeno sette mesi nell’anno e vive in una famiglia con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana. Un modo di calcolare la povertà lavorativa che gli autori contestano, suggerendo una riforma. I paradossi sono due: l’indice migliora se aumentano i contratti brevi sotto i sette mesi, le lavoratrici risultano meno povere dei lavoratori.
Inganni e distorsioni che gli autori sciolgono. Se aggiungiamo i contrattini, i lavoratori poveri sono un punto sopra quanto indica la Ue e molto di più nei vari comparti: 12% dipendenti, 17% autonomi, 22% part-time (per lo più involontario) anziché il 19% calcolato dal modello Eu-Silc. La conferma arriva dal rischio di avere basse retribuzioni che tocca un livello altissimo – 53,5% – tra i lavoratori a tempo parziale e le donne al 27,8%. Questo significa, per gli esperti, che la povertà lavorativa si concentra tra lavoratori che lavorano poco e mal pagati, soprattutto se donne.
Ecco perché la dimensione individuale e quella familiare devono essere tenute distinte, sebbene collegate. Si può essere una lavoratrice a basso reddito e povera, ma inserita in un nucleo familiare con un altro reddito da lavoro più alto: per i calcoli Ue quella lavoratrice non è più povera. Come pure si può essere un lavoratore non povero, ma unico percettore in famiglia numerosa e per questo non riuscire ad arrivare a fine mese.
Non sono questioni capziose, tutt’altro. Dai numeri e dalla loro letture discendono le politiche economiche che gli Stati mettono in campo. Avere quasi la metà delle lavoratrici impegnate con contratti di pochissime ore, sotto il livello standard – e questo succede anche agli uomini, ma solo nel 20% dei casi – è un problema per un Paese come l’Italia. Come pure sapere che il 75% di chi lavora meno di metà anno rischia di diventare lavoratore povero contro il 20% di chi lavora tutto l’anno (e il 14% se lavora tutto l’anno a full time).
Ecco dunque le cinque proposte degli esperti del gruppo sul lavoro povero in Italia:
- garantire minimi salariali adeguati: estendendo i livelli minimi garantiti dai contratti nazionali di lavoro a tutti i lavoratori (ma bisogna decidere quali sono i contratti che contano e decidere quali sindacati e quali associazioni datoriali rappresentano lavoratori e imprese) oppure introducendo il salario minimo per legge (magari iniziando da settori “pilota”);
- accrescere il rispetto dei minimi salariali con un più efficace vigilanza, sia tramite gli ispettori del lavoro che documentale;
- introdurre trasferimenti pubblici per chi lavora e ha salari bassi, come avviene altrove in Europa con l’in-work benefit;
- incentivare il rispetto delle norme con il “bollino di qualità” per le aziende che rispettano i minimi salariali e l’equa retribuzione tra uomini e donne, accompagnando questa azione con una campagna informativa per i lavoratori su diritti, lettura della busta paga e prospettive previdenziali;
- promuovere una revisione dell’indicatore europeo della povertà lavorativa.
Queste proposte, per essere efficaci – osservano gli autori del Rapporto – devono essere prese insieme e non isolate. Solo un salario minimo legale adeguato e rispettato può integrarsi con un in-work benefit senza che quest’ultimo diventi un favore fatto all’imprenditore che così scarica un pezzo del suo costo del lavoro sullo Stato, evitando di alzare i salari o diminuendo le ore.