5-03-2022 – di: Fabio Sammito e Giorgio Sichera | Volere la Luna
Il PNRR è stato – a ragione – presentato come un’opportunità epocale e unica per il nostro Paese. A riprova dell’ambizione e della portata del Piano, il MEF lo presenta in questi termini: «si tratta di un intervento che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale». Fallire una possibilità del genere potrebbe segnare un punto di non ritorno per il futuro economico della nostra Repubblica. Coglierla potrebbe aprire una fase di rilancio, di «ripresa». Questo breve contributo non punta certamente ad occuparsi delle complessissime sfide che l’attuazione del Piano comporta in termini economici e politici (data la portata economica, il PNRR tocca praticamente tutti gli ambiti della realtà politica, economico-finanziaria e sociale del Paese), ma – sulla scia di recenti dichiarazioni pubbliche di alcuni esponenti politici sul punto, tra cui quelle del Ministro per il Sud e per la Coesione Territoriale – mira ad offrire degli spunti di riflessione sulla spartizione territoriale delle risorse, nonché sulle modalità e finalità con cui queste verranno utilizzate al Sud, per colmare il proverbiale “divario territoriale” che da decenni attanaglia il nostro Paese.
È innegabile che tale divario esiste, è reale. Lo dicono impietosamente i dati e in qualche modo lo dice l’esperienza di chi si trova a vivere al Sud piuttosto che al Nord. Uno dei punti di vista dal quale emerge in maniera lampante tale disparità è quello della spesa dei comuni per i servizi sociali: secondo i dati ISTAT, con riferimento alla spesa media pro capite, al Sud il dato è di 58 euro, a fronte dei 177 euro del Nord-Est. La quasi totalità degli studiosi e degli analisti concorda nell’individuare tra le maggiori cause di tale situazione un grande vuoto, rappresentato dalla mancata definizione dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni), che, a seguito della riforma costituzionale del 2001, secondo l’art. 117 della Costituzione dovrebbero essere il cardine della protezione sociale del Paese. In vent’anni non si è registrato alcun passo avanti (solo nel dicembre 2021 si è avuta una prima definizione e soltanto in alcuni ambiti), e ciò ha consentito di poter alimentare un sistema di sviluppo nell’ambito sociale senza riferimenti solidi e obiettivi politici mirati: «la mancata definizione dei LEP assume un significato politico molto importante perché il sistema di finanziamento è stato costruito senza l’architrave fondamentale, e cioè la definizione dei servizi che devono essere garantiti a tutti gli italiani e per fornire i quali regioni ed enti locali devono disporre delle necessarie risorse» (M. Esposito, Fake Sud, 2020). In mancanza di una definizione del legislatore, il criterio per la distribuzione territoriale delle risorse è stato via via individuato nelle spese che ciascun comune comunicava di destinare per istruzione e servizi sociali, il che ha cristallizzato la spesa storica a vantaggio di chi aveva più risorse.
Proprio con riferimento ai LEP è intervenuta nel novembre del 2021 un’importante sentenza (e non è la prima) della Corte costituzionale, di cui può essere interessante riportare qualche passaggio: «I LEP rappresentano un elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali. […]. L’adempimento di questo dovere dello Stato appare, peraltro, particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), approvato con il decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59. Il ritardo nella definizione dei LEP rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali» (Corte cost. sent. n. 220/2021).
In questo contesto il Piano Nazionale degli Interventi Sociali 2021-2023 assume una portata cruciale, e rappresenta una reale possibilità di recupero delle lacune accumulate negli anni. Tra gli obiettivi prioritari spicca infatti l’individuazione e la conseguente definizione di alcuni LEPS (Livelli Essenziali di Prestazioni Sociali), oltre a quello di dare stabilità e strutturalità al sistema dei servizi sociali (come già da tempo fatto con i sistemi sanità e pensioni). L’occasione si presenta in maniera finalmente – ci si augura – concreta ed attuabile proprio grazie alle risorse che arrivano dal PNRR (con cui sono stati stanziati 1,45 miliardi per gli ambiti sociosanitario, sostegno alla disabilità e contrasto alla povertà estrema), ma a patto che gli interventi riflettano la logica strutturale e sistemica indicata dagli obiettivi stessi del Piano. Che ciò avvenga in questi termini è però tutt’altro che scontato. In Italia, infatti, il problema dell’utilizzo dei fondi statali e soprattutto europei – la cui disponibilità non è certamente mancata nell’ultimo decennio – è un tasto dolente. Il sistema di utilizzo delle risorse è sempre stato strutturato su base regionale e locale. Ciò ha portato a un approccio orientato agli interessi delle singole regioni e ambiti territoriali, e non a uno sviluppo strategico dell’intero territorio nazionale. In altri Stati europei, diverse aree decisamente arretrate (su tutti l’Estremadura spagnola, ma si pensi anche ad aree di Portogallo, Grecia e Polonia), grazie agli ingenti fondi forniti dall’UE hanno registrato una decisa rinascita economica e sociale; ciò è stato possibile grazie a interventi organici gestiti dallo Stato centrale (tra cui la costruzione di reti ferroviarie che permettono alle aree più degradate di essere parte integrante e attiva dell’intero apparato statale), e non assegnando via via piogge di denaro, in maniera del tutto disorganica, alle singole amministrazioni locali (in tal senso, non fanno ben sperare i titoli dei quotidiani di questi giorni, che sembrano il gazzettino di un concorso a premi).
Su questo punto si annida un certo pregiudizio antimeridionale, secondo il quale al Sud vengono destinate risorse pubbliche in misura decisamente maggiore rispetto al Nord, che vengono sistematicamente sprecate, per via di un’imprecisata incapacità di gestire le risorse, che porta a un continuo processo di restituzione delle somme ricevute per lo sviluppo delle aree arretrate. La realtà dei fatti però sfata il mito per cui il Sud riceve più risorse rispetto al Nord. Basti pensare che, dati alla mano, dal 2000 al 2018, in Italia si è investito 18 volte su 19 in proporzione più al Centro-Nord che al Sud (per uno studio più approfondito dei dati si consiglia M. Esposito, Fake Sud, 2020).
La situazione di enorme disparità brevemente descritta scaturisce da cause storiche e scelte politiche ben precise. Nel secondo dopoguerra, nei paesi occidentali le diseguaglianze sociali erano in forte diminuzione. Negli anni ’80 l’affermarsi delle politiche liberiste, che hanno progressivamente influenzato anche le forze politiche di centro-sinistra, ha modificato l’agenda politica dei Paesi occidentali: il tema della diseguaglianza è andato via via scomparendo, soppiantato da quello della privatizzazione e dell’abbassamento della pressione fiscale, soprattutto per i redditi medio-alti; il lavoro è stato reso sempre più flessibile, e alcuni Paesi del Nord Europa hanno adottato politiche fiscali di grandissimo favore per i grandi capitali. Si tratta certamente di un disegno complesso e di portata enorme, di cui in questa sede può solo farsi un minimo cenno. Ciò che però ci interessa sottolineare, sposando la lettura proposta da Gianfranco Viesti, è che «la crescente disuguaglianza fra le persone ha rilevanti conseguenze sulle disuguaglianze tra città e regioni, dato che la distribuzione territoriale degli individui per classe sociale e reddito non è affatto omogenea. […] Crescono le distanze fra le regioni perché crescono le distanze fra gli individui. Le condizioni delle persone, determinate dalle grandi tendenze dell’economia e dalle scelte delle politiche economiche, interagiscono con le sorti delle regioni in cui esse vivono» (G. Viesti, Centri e Periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, 2021). In questo contesto, le successive politiche di austerità dei primi anni (specie dal 2008) del XXI secolo si sono mostrate ulteriormente drammatiche per il meridione, e pertanto fortemente asimmetriche (non volendo ripercorrere gli interventi pubblici di quegli anni, basti pensare al blocco delle assunzioni negli enti territoriali al Sud, che ha comportato l’incremento della disoccupazione giovanile e ha favorito la migrazione dei giovani maggiormente scolarizzati).
Non è questa, come detto, la sede adatta per ricostruire le cause per cui l’assenza di politiche di sviluppo unitarie da un lato e l’attuazione di politiche di austerità dall’altro accentuino il già pesante distacco tra Nord e Sud del nostro paese. Ciò che si vuole semplicemente evidenziare è che, in una stagione favorevole e delicata come quella avviata con l’adozione del PNRR, c’è bisogno di pianificare interventi strutturali e strategici, con l’obiettivo di ridurre la disuguaglianza tra le persone, unica via per ridurre la disuguaglianza tra i territori. In questo contesto, appare auspicabile un intervento quanto mai rapido e adeguato del Parlamento, oltre che del Governo. In sede di Commissione Parlamentare per le questioni regionali, in data 4 febbraio 2020, l’allora Ministro per gli Affari Regionali e per le Autonomie Francesco Boccia ribadiva che «senza il via libera del Parlamento sui LEP, i LEP non partono; e senza LEP non si trasferiscono le materie LEP. Vorrei che questa cosa fosse chiara a tutti, così evitiamo incomprensioni». In un contesto in cui il Parlamento ha ormai sostanzialmente abdicato al proprio ruolo (non mancano i casi in cui ciò è stato tristemente sperimentato), ci si augura che riesca a rispondere prontamente e adeguatamente alle sfide ed alle opportunità che il momento storico pone con urgenza.