5 aprile – Marco Tarquinio, Avvenire
Impariamolo una volta per tutte: i corpi straziati di Bucha non sono un’eccezione atroce, sono il volto e il corpo della guerra, Questa è il mostro, e quella è la ferocia. Sempre. In ogni conflitto e anche nella guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, Una guerra che nessuno ha saputo (o voluto) prevenire e impedire. Una guerra che nessuno ancora oggi sa come fermare, tranne papa Francesco che non mette tutto e tutti sullo stesso identico piano, ma le vittime sì.
E dice la cosa più semplice e scandalosa all’aggressore e all’aggredito e a chi l’uno e l’altro più o meno apertamente sostiene: deponete le armi, abbiate pietà dei vostri popoli e parlatevi sul serio. Il Papa sa, e noi possiamo ricordare con lui, che i massacrati e i violati di Bucha e quelli che non abbiamo visto e non vedremo, sono i fratelli dei massacrati e dei violati di Cecenia e di Siria, e non solo perché – siamo stati tra i primi a documentarlo – in azione ci sono le stesse squadracce assassine di Grozny e di Aleppo, convocate dal presidente russo e dai suoi strateghi e schierate nelle battaglie strada per strada attorno a Kiev e nelle altre città martiri d’Ucraina.
Se c’è mai stato qualcosa di cavalleresco e di nobile nelle vicende belliche e nelle sopraffazioni degli inermi che sempre le accompagnano, esso è stato annientato definitivamente nel cuore nero del Novecento, nelle due guerre, anzi nell’unica terribile devastazione che ha dimostrato all’umanità che non c’è scampo quando si scatenano le armi, che le vittime civili sono ormai sempre assai di più dei morti in uniforme militare e che morti e feriti, violentate e violentati e senza più terra continuano a moltiplicarsi nella carne e nell’anima, per anni e anni, dopo la fine formale delle ostilità. La gran parte dell’umanità non vuole questo orrore e se ne sente innocente, ma in realtà tutti ne siamo colpevoli. Ed è ancora il Papa che, domenica scorsa, ha avuto il coraggio di confessarlo anche per noi.
Perché le guerre si accendono e proseguono solo se le dichiariamo necessarie e le accettiamo come inevitabili, se le edulcoriamo e le acclamiamo come liberatrici, se le immaginiamo asettiche e precise come un videogioco, se ci abituiamo a esse e le ignoriamo, per quieto vivere o per indifferenza e disprezzo dei diversi e dei lontani. No, non c’è eroismo né salvezza per nessuno in guerra. E soprattutto non c’è per le donne e gli uomini e i bambini che la guerra in nessun modo hanno voluto.
Ma tutti – vittime e carnefici, combattenti e mandati, spettatori e commentatori – proprio tutti rischiamo di essere risucchiati nel gorgo. Persuasi delle ragioni dello scontro mortale, e rassegnati all’idea che l’umanità possa ormai costruire la pace soltanto sotto l’ombrello della Bomba, cioè delle armi della distruzione assoluta e reciproca. Fino a prova contraria. Cioè fino alla follia estrema, che può ma non deve darsi in un tempo in cui nessuno è più in grado di vincere le guerre e tutti, certamente, le perdono. In Afghanistan, Iraq, Siria, Tigray, Congo, Yemen…
Benedetti quelli che a tutto questo dicono semplicemente di no. E fanno altrimenti.
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