Le spese del ministero della Difesa autorizzate dalla legge di bilancio per il 2022, approvata a dicembre del 2021, sono di quasi 26 miliardi di euro: la cifra più alta degli ultimi sette anni. Non solo: sempre lo scorso anno il ministro Guerini ha sottoposto all’approvazione del Parlamento 23 programmi di riarmo. Un pallino sono i droni armati
Rosita Rijtano, Redattrice lavialibera – 21 aprile 2022
Fatti, non parole. E i fatti dicono che non c’è nessuna improvvisa corsa al riarmo, perché – spiega a lavialibera Francesco Vignarca, coordinatore campagne della Rete italiana pace e disarmo e cofondatore di Mil€x, osservatorio sulle spese militari – il “riarmo è in corso da tempo. La guerra in Ucraina è solo un pretesto per legittimarlo”. Un trend globale, europeo e italiano, che per Vignarca è cominciato nel 2001, dopo l’attentato terroristico alle Torri gemelle di New York, negli Stati Uniti: “Da allora a oggi l’incremento complessivo delle spese militari è stato del 90 per cento”.
Il 2% del Pil per le spese militari: un impegno Nato non vincolante
In Italia, l’ultima decisione che va in questa direzione è stata presa lo scorso 16 marzo, quando la Camera ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad aumentare le spese militari fino al due per cento del Prodotto interno lordo (Pil), come previsto dalle linee guida della Nato. Linee guida che sono state sottoscritte dai paesi aderenti all’Alleanza atlantica nel settembre del 2014, dopo l’annessione illegittima della Crimea da parte della Russia, e che tuttavia non sono vincolanti tanto che al momento solo otto Stati su 30 rispettano l’impegno. L’ordine del giorno ha incassato il favore di 391 deputati, appena 19 i contrari, tra cui Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana che definisce questo trasversale consenso “un segnale molto preoccupante e un grave salto di qualità”. La modifica farebbe passare la spesa dai 25,8 miliardi ai 38 miliardi di euro l’anno.
Le parole di Lucarelli: Guerra
Il 2022: anno record per le spese militari
Eppure, dati alla mano, è solo l’ultima conferma di una tendenza che va avanti da anni e che il governo di Mario Draghi ha fatto propria. “Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto più di quanto fatto finora”, aveva detto il presidente del Consiglio il 29 settembre scorso durante la conferenza stampa di presentazione della Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef): documento che viene esposto ogni anno alle Camere entro fine settembre per aggiornare le previsioni economiche e finanziarie del Documento di economia e finanza (Def), in vista dell’approvazione della legge di bilancio. Ha subito mantenuto la parola.
Le spese del ministero della Difesa autorizzate dalla legge di bilancio per il 2022, approvata a dicembre del 2021, sono di quasi 26 miliardi di euro: il 3,2 per cento del bilancio dello Stato. Si tratta della cifra più alta raggiunta negli ultimi sette anni e anche se per il 2023 e il 2024 è al momento prevista una leggera riduzione siamo ben oltre i 20 miliardi di euro stanziati nel 2016. Nel corso del 2021 l’attuale ministro della difesa Lorenzo Guerini ha anche sottoposto all’approvazione del Parlamento 23 programmi di riarmo: un numero senza precedenti.
Droni armati, una lunga storia d’amore
La maggior parte riguarda l’aeronautica militare che, tra le altre cose, si doterà di una flotta di aeromobili a pilotaggio remoto. In particolare, si tratta dei droni del progetto European Male Rpas: velivoli nati per essere un’alternativa europea ai prodotti israeliani e statunitensi, e sviluppati in collaborazione tra Airbus Defense and Space (divisione di Airbus Group), la francese Dassault Aviation e l’italiana Leonardo. Saranno macchine dotate di lunga autonomia, capacità di intelligence, sorveglianza, acquisizione obiettivi e ricognizione. Probabilmente saranno sfruttate per pattugliare le frontiere terrestri e marine, ma anche per operazioni che riguardano la sicurezza nazionale. Lo scorso febbraio Airbus, la capocommessa, ha firmato con l’Agenzia europea congiunta per la cooperazione in materia di armamenti (Occar) il contratto per lo sviluppo e la produzione di 20 sistemi e cinque anni di supporto iniziale: “Il più grande programma della difesa europea da qualche decennio”, l’ha definito Serafino D’Angelantonio, a capo di Airbus in Italia. Il nostro Paese si è impegnato nell’acquisto di cinque sistemi, e quindi di 15 droni, per un investimento complessivo di quasi due miliardi di euro.
Ma l’amore della Difesa per i droni non si limita alle operazioni di sorveglianza e ricognizione. Sempre nel 2021, e quindi ben prima della guerra in Ucraina, è stato dato il via libera all’acquisto dei cosiddetti droni kamikaze che saranno usati dalle nostre Forze speciali in missione all’estero. La scelta è ricaduta sugli Hero-30 dell’israeliana Uvision: droni che fanno poco rumore, non sono molto visibili, sono in grado di funzionare sia di giorno sia di notte, e si possono trasportare in zaini progettati ad hoc. L’arma è una testata esplosiva. Difficile dire con esattezza dove verrà impiegata questa tecnologia, dato che le informazioni sulle operazioni delle forze speciali sono classificate. La sola indicazione è contenuta nello schema di decreto ministeriale di approvazione del programma, in cui si fa presente che il fine dei droni è garantire l’autodifesa delle nostre unità, “considerato anche il mutato scenario iracheno”. In Iraq la coalizione internazionale anti-Isis guidata dagli Stati Uniti dovrebbe presto passare nelle mani della Nato e il suo comando (ricorda Domani) essere affidato all’Italia, che nel Paese avrà il contingente più numeroso. Ed è proprio qui che l’impiego degli Hero-30 potrebbe avere il suo terreno d’elezione. Ma, secondo l’osservatorio Mil€x, l’utilizzo dei velivoli non sarebbe del tutto in linea con l’obiettivo dell’operazione italiana a Baghdad, chiamata Prima Parthica, che si propone di addestrare e coordinare le truppe locali.
Un’altra richiesta, in discussione al Parlamento, è quella di armare i droni Reaper MQ-9 della statunitense General Atomics: quelli a disposizione della nostra aeronautica sono sei e adesso, disarmati, vengono sfruttati per attività di sorveglianza. L’intenzione di renderli offensivi è contenuta nel Documento programmatico pluriennale 2021-23 del ministero della Difesa, ma l’idea risale a più di dieci anni fa quando l’Italia ha presentato per la prima volta al governo degli Stati Uniti la richiesta di ottenere un software necessario all’armamento dei Reaper sviluppato dalla General Atomics, per la cui esportazione è necessaria l’autorizzazione del Congresso: autorizzazione prima negata e poi concessa nel 2015, a seguito di una seconda richiesta. Il possibile armamento dei Reaper ha fino ad ora sollevato molte obiezioni per via dei civili coinvolti negli attacchi condotti con droni killer, come Giovanni Lo Porto: l’operatore umanitario italiano ucciso al confine tra Afghanistan e Pakistan da un velivolo Usa che aveva come bersaglio ufficiale alcuni membri di al Qaeda.
Il Sistema difesa e il rischio di influenza indebita dell’industria delle armi sull’agenda politica
Un’altra novità è contenuta nella Direttiva per la politica industriale della difesa emanata a luglio 2021: come ha fatto notare Giorgio Pagano su MicroMega, non solo è la prima direttiva in materia di politica industriale-militare emanata dal dopoguerra a oggi, ma si augura anche un superamento della relazione tra le forze armate e l’industria in termini di cliente-fornitore, promuovendo invece un rapporto “sinergico e strategicamente solidale”. Lo scopo è la costruzione di quello che viene chiamato Sistema difesa rivolto “allo sviluppo più che all’acquisizione, alle tecnologie più che ai prodotti, ai programmi più che ai contatti, alla dimensione europea e internazionale più che al mercato nazionale”. In altri termini – sostiene Pagano – “il ministero della Difesa viene messo al servizio dell’industria degli armamenti. In aperto contrasto con la Costituzione”.
In questo contesto, assumono ancora più importanza “le vulnerabilità sistemiche e i possibili percorsi attraverso i quali l’industria italiana della difesa può esercitare un’influenza indebita sull’agenda politica nazionale in materia di difesa e sicurezza” individuate in un rapporto redatto da Transparency International. Uno dei problemi principali sono le attività di lobbying che non vengono regolate da alcuna legge autonoma a livello nazionale. Alcune amministrazioni pubbliche hanno di recente adottato i propri regolamenti sul lobbismo: le maggiori aziende e associazioni del settore della difesa in Italia inviano i documenti relativi alle loro attività di lobbying, ma – si legge nel report – queste informazioni “sono spesso obsolete e incomplete e non forniscono alcuna base per un controllo significativo delle loro attività”. C’è poi da tenere in considerazione la questione delle cosiddette porte girevoli, cioè il frequente passaggio di persone dal settore pubblico a quello privato, con conseguenti possibili conflitti di interesse. Un esempio: Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e promotore delle politiche di contenimento dei flussi migratori dalla Libia, oggi presidente di Med-Or, la fondazione di Leonardo.
Nel processo decisionale, una carenza cruciale è la limitata possibilità di supervisionare l’approvvigionamento militare una volta concessa l’approvazione iniziale all’acquisizione da parte delle Camere. Di conseguenza, il ministero della Difesa può decidere in seconda battuta di usare le risorse in maniera diversa senza bisogno di un nuovo passaggio parlamentare. Allo stesso modo manca un controllo indipendente sul modo in cui i programmi di acquisizione di armi vengono gestiti nel tempo: una funzione svolta internamente.
Il percorso militarista dell’Unione europea
Allargando la prospettiva a livello europeo, la tendenza di lungo periodo al riarmo è ugualmente evidente. Il 28 gennaio 2021 l’Agenzia europea per la difesa (Eda) ha pubblicato il rapporto annuale sulla spesa degli Stati membri nel settore. I miliardi di euro sganciati complessivamente nel 2019 sono stati 186. Ma il dato più interessante è questo: nel 2019 la cifra destinata agli armamenti è cresciuta per il quinto anno consecutivo, segnando un più cinque per cento rispetto al 2018. Un incremento senza precedenti, scriveva l’agenzia di difesa europea, per la quale però il trend positivo non sarebbe sufficiente mancando adeguati finanziamenti in ricerca e tecnologia e ricerca e sviluppo. Agli investimenti dei singoli Stati vanno infine aggiunti quelli dell’intera Unione europea che, stando a quanto scrivono l’European network against the arms trade e il Transnational institute in un documento di marzo 2022, da alcuni anni si sta ritagliando un percorso militarista.
Un percorso iniziato con il trattato di Lisbona del 2009 che ha posto le basi giuridiche per la creazione di una politica di sicurezza e difesa comune. Una tappa importante è la creazione, nel 2017, del Fondo europeo della difesa (Fes): un fondo gestito direttamente dall’Ue per accrescere gli investimenti nazionali per sistemi militari che oggi ha un budget di otto miliardi di euro. Per dare un’idea delle potenzialità del Fes, ancora in fase embrionale, la ricerca ha analizzato le informazioni disponibili su due programmi precursori: l’Azione preparatoria per la ricerca sulla difesa con un budget di 90 milioni di euro, e il Programma europeo di sviluppo industriale della difesa con un budget di 500 milioni di euro. I risultati mostrano che al momento l’Europa sta sostenendo 62 progetti di ricerca e innovazione militare per un totale di 576,5 milioni di euro. A beneficiarne sono soprattutto Francia, Germania, Italia e Spagna. In particolare, a livello di singole aziende, è [CONTINUA A LEGGERE SU LAVIALIBERA]