«Non ci può essere pace senza giustizia sociale e senza lotta alle disuguaglianze». La Rete dei Numeri Pari, quasi 600 realtà sociali sui territori, lo chiederà a gran voce, sabato mattina 5 novembre. La manifestazione dei movimenti impegnati nella battaglia contro la povertà sarà a Roma, a Piazza Vittorio. Da lì i Numeri Pari confluiranno nell’altra grande manifestazione, quella per la pace di Europe for peace, nella stessa giornata. Per l’economista Giuseppe De Marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari, «la pace passa dall’applicazione dell’agenda sociale». Finora non è stato fatto: «E le conseguenze del liberismo economico e di una politica che ne è succube sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia vive la più grave crisi della storia della Repubblica per l’aumento sconsiderato delle disuguaglianze, conseguenza diretta dell’assenza di politiche idonee. Il risultato sono 19 milioni di persone che non votano, perché non gli viene data speranza. Saremo in piazza, accanto a chi chiede pace. E a dicembre durante la discussione della legge di bilancio chiederemo politiche di vita».
Quando comincia il cammino della Rete dei Numeri Pari?
Cinque anni fa, raccogliendo il testimone della campagna Miseria Ladra lanciata nove anni fa da Libera e Gruppo Abele. Ci siamo resi conto allora, assieme a don Luigi Ciotti, che le campagne di pressione sulla politica rischiavano di non essere tradotte in strumenti normativi reali, ma soprattutto non generavano partecipazione dei territori. Abbiamo deciso di riprendere il sogno del cardinale Carlo Maria Martini, mettendo insieme tanti soggetti impegnati contro le diseguaglianze e le mafie, all’interno di una relazione paritaria, in cui le scelte vengono prese alla pari: Libera conta quanto il Comitato di mamme, la parrocchia, la cooperativa. Lo facciamo su obiettivi concreti e sporcandoci le mani, praticando il mutualismo. La Rete nasce dopo l’incontro dei movimenti popolari della Terra con Papa Francesco, io ho lavorato dieci anni in America Latina con le comunità indigene e rurali. E abbiamo esordito intervenendo allo sgombero del palazzo di Piazza Indipendenza a Roma occupato da profughi eritrei. Lì abbiamo incontrato don Paolo Lojudice, allora vescovo ausiliare di Roma, oggi cardinale a Siena. Uno straordinario punto di riferimento, un amico dei poveri.
Chi sottoscrive la vostra agenda sociale “scritta dal basso”?
Sono già 700 le adesioni alla manifestazione del 5 novembre, che convergerà poi nella grande mobilitazione per il cessate il fuoco e una conferenza di pace per l’Ucraina organizzato da Rete italiana pace e disarmo. Facciamo parte dell’internazionale della Terra, che guarda all’ecologia integrale come visione politica, e che pratica il mutualismo dal basso. Una geografia della speranza che si ispira alla teologia della liberazione. Riportiamo sul territorio le relazioni sociali, scomparse con la chiusura delle sezioni di quartiere dei partiti. È la risposta all’incapacità delle forze politiche di garantire partecipazione e di produrre classi dirigenti in grado di rispondere alle sfide dei tempi. La classe dirigente politica attuale è fatta di narcisi, malati di moderatismo, sganciati dai problemi reali, incapaci di una visione di speranza.
Cosa chiederete a Roma il 5 novembre?
Sono sette le proposte della piattaforma sociale che portiamo in piazza. Reddito di cittadinanza, salario minimo, diritto all’abitare, riforma del welfare che oggi scarica il peso di cura sulle donne, lotta alle mafie, no all’autonomia differenziata che attenta a l’unità della Repubblica ed è una secessione dei ricchi, garanzia che i fondi del Pnrr siano per l’equità sociale e la sostenibilità ambientale, non per il gas, il carbone e le armi. Da 13 anni, in Italia, Istat, Censis, Oxfam denunciano un aumento costante delle diseguaglianze. Numeri mai visti su dispersione scolastica e analfabetismo di ritorno per un italiano su tre. Sei milioni di persone in povertà assoluta, di cui 1,3 milioni minori. È il tradimento della nostra Costituzione. I governi in questi 13 anni non hanno avuto come priorità la lotta alle diseguaglianze. Non sono stati fatti investimenti veri sui temi del reddito, del salario, dell’occupazione, della riconversione ecologica, del diritto all’abitare, della lotta alle mafie, della riforma del welfare. La situazione mondiale attuale è il risultato delle economie che producono morte. Le richieste sociali dei movimenti potranno avere risposta solo se cambieremo modello produttivo. Il liberismo economico è un modello che produce insostenibilità sociale e ambientale.