di Roberto Rosso – Transform! Italia
La COP15 sulla biodiversità in corso a Montreal1, che si concluderà il 19 dicembre, non suscita l’interesse della COP27 sul clima, capace di evocare le immagini dei fenomeni metereologici estremi che colpiscono le diverse regioni del globo, fenomeni che segnano un percorso verso una sorta di catastrofe finale, verso convergono tutte le contraddizioni dell’attuale modo di produzione, così come si si è venuto evolvendo nelle diverse regioni del globo.
LA COP27 ha mostrato -una volta di più- l’incapacità degli attuali assetti geopolitici di produrre un’azione globale, coordinata ed efficace, capace di contrastare il processo di riscaldamento globale. Ciò che colpisce in questa situazione non è tanto l’incapacità di produrre una azione rivolta al futuro -finalizzata ad appiattire la curva del riscaldamento globale- quanto l’incapacità – o meglio la non volontà- di realizzare quegli interventi necessari ad adattarsi agli effetti attuali e prossimi venturi del cambiamento climatico, che vanno a colpire soprattutto quei paesi, quelle regioni del globo, che hanno una responsabilità minore, per non dire infima, nel causare il riscaldamento globale; ancora si discute dei famosi cento miliardi di dollari destinati a quei paesi da parte dei paesi più ricchi e responsabili, mentre -per fare un esempio- da un giorno all’altro il governo tedesco decide di stanziare 100 miliardi di euro per riarmo del proprio paese e 200 miliardi per affrontare la transizione energetica, per non parlare degli 840 miliardi di dollari del bilancio del Pentagono.
Dicevamo si è parlato e si parla ancora della COP27 quasi nulla o molto poco della COP15; eppure la perdita di biodiversità, la rottura catastrofica di interi ecosistemi è strettamente correlata al cambiamento climatico, alla capacità di assorbimento dei gas climalteranti, al mantenimento di andamenti climatici equilibrati, in particolare al regime delle piogge. La distruzione degli ecosistemi è legata inoltre allo sviluppo di nuove pandemie attraverso il fenomeno della zoonosi, il trasferimento di agenti patogeni ospitati da altre specie animali all’uomo, che ne viene in contatto con la distruzione dell’ambiente in cui queste specie vivevano, senza contatti continui ed intensi con le comunità umane; la pandemia da Sars-Cov-2, cosiddetta Covid-19, ne è il più recente e più grave esempio, certamente non l’ultimo. Si può leggere in proposito il report dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) IPBES #PandemicsReport: Escaping the ‘Era of Pandemics’2. La perdita di biodiversità si misura in termini di specie scomparse, globalmente e nei singoli territori, tuttavia questi numeri, queste percentuali, non dicono di per sé quanto si perde di complessità degli ecosistemi in cui queste specie si riproducevano, quanto la loro scomparsa indebolisca questi ecosistemi, indebolisca la capacità di riprodursi delle specie che ne fanno parte e quanto quindi siano i prodromi di ulteriori estinzioni. La storia del modo di produzione capitalistico, del processo di accumulazione, è passata per l’impianto di monoculture, con la conseguente distruzione di interi ecosistemi; ne è un esempio eclatante -e forse il più studiato- la successione di monoculture in Brasile, che ancora oggi, non a caso, si trova ad essere uno dei poli della distruzione degli ecosistemi, con la progressiva riduzione della foresta pluviale amazzonica, assieme agli altri paesi del latino-america i cui territori ne comprendono parte. Nella storia del Brasile3 ritroviamo albero della gomma4, canna da zucchero, cotone e caffè, assieme alla soia e non va dimenticato il meno conosciuto eucalipto5. L’espansione delle diverse colture è legata alle trasformazioni del modo di produzione, della loro domanda nel commercio mondiale ed al loro utilizzo nei processi industriali; da ultimo si è aggiunta la filiera dei biocarburanti. La storia sociale delle monoculture caratterizza intere fasi della trasformazione del modo di produzione capitalistico, con la prevalenza di rapporti di sfruttamento fondati sulla schiavitù.
I rapporti diseguali che hanno caratterizzato l’attivazione, l’incremento del riscaldamento globale e delle sue conseguenze sulle diverse regioni del globo, si ritrovano nei processi di perdita della biodiversità, che sono il frutto di processi di accumulazione, basati su modelli estrattivi, che hanno prodotto un trasferimento di ricchezza verso i paesi più sviluppati, a favore delle classi più ricche.
Così come alla COP27 l’obiettivo è la limitazione del riscaldamento medio globale ad 1,5 °, alla COP15 si è alla ricerca di un accordo su quello che potremmo definire un obiettivo di minima, vale a dire la garanzia della preservazione del 30% delle specie per il 2030, il cosiddetto 30×306. Come per il clima il problema di fondo è quello delle diseguaglianze che stanno alla base della contraddizione, del rischio globale che si vorrebbe -il condizionale è d’obbligo- affrontare. I popoli cosiddetti indigeni costituiscono circa il 5% della popolazione mondiale, costituiscono il 15% della sua quota povera, occupano il 20% della superfice della terra e proteggono circa l’80% della biodiversità rimanente7, la fonte di queste cifre che vanno aggiornate -probabilmente non in meglio per la condizione dei popoli indigeni e la biodiversità- proviene da un report della Banca Mondiale8. Possiamo citare un altro studio ‘Forest governance by indigenous and tribal peoples. An opportunity for climate action in Latin America and the Caribbean’9. Il documento riassume il rapporto che, sulla base di una revisione di oltre 250 studi, dimostra l’importanza e l’urgenza dell’azione per il clima per proteggere le foreste dei territori indigeni e tribali dell’America Latina, nonché i popoli indigeni e tribali che li proteggono. Questi territori contengono circa un terzo delle foreste del continente. Questo è il 14% del carbonio immagazzinato nelle foreste tropicali di tutto il mondo; Questi territori ospitano anche un’enorme diversità di fauna e flora selvatiche e svolgono un ruolo chiave nella stabilizzazione del clima locale e regionale.
Sulla base di un’analisi degli approcci che si sono dimostrati efficaci negli ultimi decenni, viene proposta una serie di investimenti e politiche per l’adozione da parte dei soggetti che finaziano politiche pro-clima e dei decisori governativi in collaborazione con i popoli indigeni e tribali. Tali misure sono raggruppate in cinque categorie principali: i) rafforzamento dei diritti territoriali collettivi; ii) compensare le comunità indigene e tribali per i servizi ambientali che forniscono; iii) facilitare la gestione forestale della comunità; iv) rivitalizzare le culture e le conoscenze tradizionali; e v) rafforzare la governance territoriale e le organizzazioni indigene e tribali. L’analisi preliminare suggerisce che questi investimenti potrebbero ridurre significativamente le emissioni di carbonio previste a basso costo, oltre a offrire molti altri benefici ambientali e sociali.
E’ del tutto evidente come stanti così le cose, il raggiungimento dell’obiettivo 30×30 richieda un mutamento radicale, un rovesciamento del rapporti economici globale ed in particolare in quelle regioni dove si concentra la biodiversità, questo affermano i rappresentati dei Popoli Indigeni e delle Comunità Locali come International Indigenous Forum on Biodiversity (IIFB)10 e l’Asia Indigenous Peoples Pact11.
Nel novembre 2021, uno studio conteneva mappe degli ecosistemi che l’umanità 12 non deve distruggere per raggiungere gli obiettivi climatici, che includono le vaste foreste boreali e torbiere di Russia, Cina e Stati Uniti, e le foreste tropicali dell’Amazzonia, del bacino del Congo e dell’Indonesia. Queste aree contengono 139 miliardi di tonnellate di carbonio “irrecuperabile” e i ricercatori hanno detto che è qui che dovrebbero essere concentrati gli sforzi 30×3013.
L’indicazione del ‘concentrare gli sforzi’ presume che vi sia un dispositivo decisionale, organizzativo, di cooperazione globale in grado di realizzare questa concentrazione laddove la situazione attuale è il frutto di una logica conflittuale e competitiva. Nel frattempo la concentrazione della popolazione mondiale in metropoli e megalopoli correlata al modello di agroalimentare che sostiene -attraverso diseguaglianze crescenti- rende sempre meno probabile il raggiungimento dell’auspicata collaborazione globale. Uno degli effetti inevitabili sarà invece a crescente finanziarizzazione, la definizione di indici della biodiversità, dei rischi di estinzione delle specie e degli ecosistemi, su cui scommettere nei mercati finanziari; peraltro l’incrocio delle crisi in cui stiamo globalmente vivendo, la recessione e crisi finanziaria, annunciata dai provvedimenti delle banche centrali finalizzati alla riduzione dei processi inflazionistici, non garantiranno certo il raggiungimento degli obiettivi che la COP15 sta elaborando, laddove la competizione globale ed il tentativo di garantire comunque un minimo si sostentamento ad una popolazione sempre più urbanizzata, vanno nella direzione del super-sfruttamento ed accaparramento delle aree fertili del globo; vale sempre l’esempio della politica di accaparramento di aree fertili da parte della Cina soprattutto in Africa, per garantire il sostentamento della propria popolazione. La capacità scientifica di conoscere e monitorare la perdita di complessità degli ecosistemi, che riscontriamo nella produzione delle COP sul clima come sulla biodiversità si scontra purtroppo con l’incapacità di dare un seguito in termini operativi, in base ad un progettualità, ad una azione condivisa.
L’obiettivo 30X30 costituisce un obiettivo di minima in quanto lascia scoperto il rimanente 70%, pur tenendo conto dell’effetto sinergico dei processi messi in atto per raggiungere un tale obiettivo, d’altra parte ci stiamo rendendo conto che tale obiettivo non sta per ora nell’ordine delle cose.
Aspettiamo le conclusioni della conferenza, di cui per ora sono disponibili solo documenti provvisori in corso di elaborazione, che noi andremo a commentare, riprendendo ed approfondendo l’analisi che stiamo conducendo sulla crisi climatica, come contenitore e orizzonte delle altre crisi globali con cui interagisce in un rapporto di reciproco aggravamento.
Ciò che emerge da queste note che riprendono filoni di analisi ormai più che consolidati è l’interdipendenza tra la salvezza dell’umanità e quella dell’ambiente, in tutte le sue accezioni, in cui essa si riproduce; in questa interdipendenza si evidenziano delle soglie -oltre le quali- e dei punti di rottura -infranti i quali- l’attuale modo di riproduzione è destinato a collassare.; questa constatazione non induce ai cambiamenti di rotta radicali che sarebbero necessari. La parola d’ordine della sostenibilità che informa gran parte dei processi di ristrutturazione in corso, introduce cambiamenti del tutto insufficienti e soprattutto conferma le logiche di sistema che hanno prodotto la catastrofe prossima ventura a cui ci si approssima con una logica selettiva, che conferma ed approfondisce le diseguaglianze ed attribuisce probabilità di sopravvivenza e livelli di vita fortemente differenziati: sull’arca non salgono tutte le specie ma solo i privilegiati, forse. I dominanti si illudono di poterla scampare a spese dei dominati, ma nella loro incoscienza stanno portando l’umanità alla rovina, attraverso un crescendo di sofferenza.
Contro tutto questo è necessaria una ‘nuova alleanza’ tra i movimenti che trasversalmente lottano contro questo stato di cose e la sua tragica deriva; la ricchezza dei ‘movimenti’ nell’accezione più estesa, ha bisogno di ‘precipitare’ come in una reazione chimica verso una capacità di azione comune, sostenuta dalla straordinaria ricchezza di esperienze, culture, forme organizzative e di riproduzione che sino ad ora non è stata capace di creare il proprio ecosistema. Una nuova alleanza dei dominati che necessariamente comprenda il mondo del vivente e gli equilibri complessivi in cui esso si si riproduce, evolve e contribuisce a creare.
Roberto Rosso
Dalla COP15 sulla biodiversità la conferma della necessità di una ‘nuova alleanza’