Aumentano povertà, disuguaglianze ed esclusione ma le professioni del sociale non ci sono
15 febbraio 20233 | Di Maurizio Simmini per la Rete dei Numeri Pari
C’è un problema di cui ancora si parla poco se non nelle riviste specializzate o negli ambiti di specifica competenza. Eppure, la mancanza di “professioni del sociale”, va assumendo sempre più la dimensione di una crisi tale da mettere in pericolo l’intero sistema dei servizi in Italia.
Mentre in alcune Regioni già si parla di situazione drammatica (Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Marche) con addirittura servizi che chiudono per mancanza di personale, in altre si guarda con estrema preoccupazione al prossimo futuro perché la condizione peggiora di giorno in giorno senza che nessuno si occupi delle possibili soluzioni.
Nella Regione Lazio la situazione grave è evidente per le organizzazioni che operano nel settore, ed il ricorso a figure professionali con titoli non in linea con la richiesta del servizio è ormai consuetudine. Mancano gli Educatori, gli OSS (Operatori Socio-Sanitari), gli Operatori Educativi nelle scuole, ma anche assistenti sociali e i motivi di questa mancanza sono da imputare a diversi fattori. Uno di questi è rappresentato dalla poca attrattività dal punto di vista economico. In Italia le retribuzioni di queste professionalità sono tra le più basse d’Europa con poche possibilità di uno sviluppo di carriera. Si è poi esaurita la spinta propulsiva degli anni settanta/ottanta, quando le motivazioni legate a una visione di società che cooperava per il bene comune, portava migliaia di giovani a fare un investimento di vita in questo settore. Le scelte politiche erano sostenute da quelle motivazioni con stanziamenti nel bilancio dello stato che hanno permesso la strutturazione e l’organizzazione dei servizi sociali. È in quel periodo che nascevano le professionalità che oggi mancano.
In definitiva, quindi, lo Stato ha disinvestito sul “sociale”, sull’integrazione sociale delle persone più fragili, sull’inclusione lavorativa delle persone svantaggiate e col passare degli anni, la spesa sul sociale, in primis nel bilancio nazionale, è stata ridotta sempre più fino a definire, oggi, una crisi delle professionalità che si configura come una crisi di sistema, con poche e difficili soluzioni all’orizzonte. La legge di bilancio del Governo in carica, non cambia la linea seguita dai governi precedenti che hanno cercato sempre più di “monetizzare” gli interventi. Anche con il Governo Meloni quello che appare evidente è la mancanza di volontà ad affrontare i bisogni delle persone con servizi sociali, attivando, in sostituzione, supporti economici (tra l’altro strutturati e pensati male perché limitano la platea dei richiedenti) insufficienti anche dal punto di vista della spesa. De finanziando la spesa sui servizi sociali, dirottando pochi fondi attraverso bonus, voucher, benefit per aziende, ed altri piccoli interventi spot, si destruttura quel poco che rimane dell’organizzazione dei servizi sociali nel Paese, e si definisce ulteriormente una de responsabilizzazione dello Stato nei confronti dei bisogni reali dei cittadini.
Quello che appare evidente è che per uscirne c’è bisogno di un’inversione di rotta. Sicuramente un primo passo da fare, per rigenerare il settore, deve essere proprio quello di considerare la spesa del sociale un investimento e non un costo. Riprendere a soddisfare le esigenze delle persone che vivono condizioni di disagio, il cui numero è aumentato soprattutto dopo il periodo pandemico, attraverso misure di sostegno con servizi e progetti che favoriscano integrazione sociale ed inclusione lavorativa. Ma, al contempo, bisogna sostenere e sviluppare interventi sociali di prevenzione per i giovani, per gli anziani (educative di strada, centri diurni per anziani, ecc.) che prevengano danni non recuperabili se non con interventi e costi ben più pesanti nell’ambito sanitario (cura delle tossicodipendenze, aumento delle ospedalizzazioni, ecc).
Questo, però, significa pensare a un “sociale” diverso, più moderno e al passo con le sfide che ci attendono. Significa abbandonare l’idea di “sanitarizzare” il sociale parlando di “prestazioni”, per ricominciare a parlare di “interventi” e che siano di ampio respiro.
Riconsiderare, rivalutare, ricollocare l’idea di un “sociale” smantellando il concetto e la posizione di un settore a sé stante. Su questo faccio mie le parole di Sergio Pasquinelli e Francesca Pozzoli da un articolo sulla rivista Welforum.it del 6 Ottobre 2022. “…(il sociale) deve intrecciarsi con un’idea ampia di welfare, che include l’ambiente e la transizione ecologica, la salute, la cultura, l’abitare. C’è già una moltitudine di progetti che lavorano su queste connessioni: vanno moltiplicati, coltivati, consolidati. Perché così si alimenta anche un senso di identità professionale, di appartenenza ad un campo più ampio, interconnesso, che fa della diversità un valore. Questo significa uscire da un sociale autoreferenziale, considerato un “costo”, e ribaltare la prospettiva: diventa investimento perché può prevenire il disagio, può intercettare il bisogno prima che si trasformi in sofferenza conclamata. Le azioni che promuove riguardano la cura, la salute, l’educazione non solo dei più fragili ma di tutti. Un welfare per tutti.”