Una riforma squilibrata che non garantisce stabilità. Le preoccupazioni e i dubbi della commissione europea sul premierato

Gaetano Azzariti – Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Roma “La Sapienza”

1. Le preoccupazioni e i dubbi della Commissione europea sul premierato

Vorrei prendere in esame i due rilievi d’ordine generale mossi in riferimento esplicito al progetto di riforma costituzionale dalla Commissione europea nella sua relazione sullo stato di diritto dedicato al nostro Paese. Una discussione sui punti sollevati che mi pare doverosa anche perché, al di là delle polemiche sul significato da dare a tali annotazioni (se ascrivibili direttamente al giudizio della Commissione ovvero se – come anche è stato interpretato – esse siano solo riproduttive di “preoccupazioni” di portatori di interessi), ritengo che in ogni caso le questioni indicate dalla Commissione europea meritino la più alta considerazione

Forse ci voleva proprio un occhio esterno – quello della Commissione – lontano dalle polemiche più contingenti per richiamare il legislatore ad affrontare le questioni in gran parte rimosse, ma più di fondo, che una modifica della forma di governo solleva. Vediamo quali sono i rilievi proposti dalla Commissione a conclusione della parte del report europeo espressamente dedicata alla riforma costituzionale in discussione nel nostro Paese: a) in primo luogo, si esprime “preoccupazione” in merito ai possibili effetti sull’ordinario sistema degli equilibri istituzionali, non garantendo la conservazione dei necessari checks-and-balances; b) in secondo luogo, si sollevano dei “dubbi” sul fatto che le modifiche proposte possano apportare maggiore stabilità, ovvero che siano in grado di conseguire il principale obiettivo dichiarato dell’intera riforma.

2. Una riforma squilibrata e i rischi di degenerazione delle forme di governo

Partendo dal primo rilievo, la questione dell’equilibrio è veramente di fondo e non mi sembra sufficientemente discussa nel dibattito corrente. Forse perché accecati dallo scopo perseguito – in sé certamente legittimo – della stabilità, sembra ci si sia dimenticati di quel che è l’insegnamento più classico nello studio delle forme di governo. Non c’è bisogno di richiamare i classici – da Aristotele a Polibio – per ricordare che il rischio maggiore non è nella scelta di quale forma di governo, ma nella necessità – quale che sia la scelta – che nessun potere prevalga sull’altro, poiché questo porta inevitabilmente alla degenerazione delle democrazie, le quali, in assenza di contrappesi, si trasformano in demagogie, in oclocrazie, ovvero, ai nostri tempi più credibilmente, portano alla degenerazione dei populismi. Non c’è bisogno di richiamare i classici, dicevo, perché è l’esperienza concreta che lo mostra. Basta pensare a quelli che possono essere considerati i due modelli contrapposti di elezione diretta del capo dello Stato posto al vertice del Governo. L’esperienza democratica degli Stati Uniti (quale che sia il giudizio sulla qualità di questa democrazia) si fonda appunto sulla cultura dei check and balance. Il Congresso degli Stati Uniti – per non parlare degli altri poteri – è da collocare tra le Camere rappresentative più forti e autonome del mondo. In grado di contrapporsi, senza remore e senza rischi di essere sciolto, al Capo scelto dal popolo (in verità, eletto in via indiretta). Il Presidente degli Stati Uniti, che da alcuni è ritenuto l’uomo più potente al mondo, non è però in grado di imporsi al “suo” Congresso. Le elezioni di mezzo termine, con la frequente perdita della maggioranza presidenziale al Congresso ovvero al Senato, confermano inoltre che nessuna garanzia di omogeneità politica tra i due organi può essere istituzionalmente imposta.

Dove così non è, non c’è democrazia: le diverse forme di presidenzialismo autoritario, da quello turco a quello russo si caratterizzano tutte per l’assenza di contrappesi, per la presenza di Parlamenti privi di autonomia, posti al servizio del Capo del Governo (ovvero dello Stato), eletto anch’esso, come nei regimi democratici, dal corpo elettorale. A conferma dell’essenza e del valore della democrazia che rinviene il suo fondamento nella effettiva divisione dei poteri e nell’esistenza di poteri in grado di frenare gli eccessi degli altri poteri. In fondo, dovremmo sempre ricordare che «solo il potere arresta il potere» (Montesquieu) e che le garanzie della divisione dei poteri non sono un
optional della democrazia.

Questa esigenza sistemica di autonomia degli organi e separazione dei poteri dovrebbe indurre a ripensare tutte quelle misure contenute nel progetto di riforma governativo (dall’art. 5 di modifica dell’art. 92 Cost., all’art. 7 di modifica dell’art. 94 Cost.) che puntano non solo a collegare la maggioranza parlamentare al Presidente del Consiglio, ma ancor più a garantire una unicità di indirizzo politico-governativo e ad assegnare al Capo del governo eletto il potere di scioglimento che – sebbene si articoli in diversi e complessi sotto casi – alla fine deve essere obbligatoriamente “disposto” da un Presidente della Repubblica privato del suo potere – che sino ad oggi è stato nel nostro Paese decisivo – di interlocuzione negli stati di crisi. Non solo dunque un Parlamento non più autonomo, ma anche un Capo dello Stato privato del suo ruolo costituzionale, di «reggitore degli stati di crisi» (per riprendere la nota definizione di Carlo Esposito) a salvaguardia degli equilibri politico-costituzionali.

L’esigenza di cercare di preservare un equilibrio e l’autonomia tra gli organi di vertice del nostro ordinamento costituzionale è tanto più essenziale nel nostro Paese se si considera lo stato di sofferenza che già oggi caratterizza i rapporti tra i poteri. È noto, infatti, che in Italia il vero potere in crisi e in progressivo indebolimento – ben più del Governo – è il Parlamento, l’organo della rappresentanza plurale.

In questa situazione pensare di rafforzare il Governo, senza al contempo preoccuparsi di rafforzare il Parlamento, rendendo inoltre marginale – se non formalmente, certamente in via sostanziale – il potere di controllo, indirizzo e stimolo del nostro Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, rischia veramente di produrre un sistema
carente dal punto di vista dei contrappesi, sprovvisto dei necessari check and balance cui ci richiama l’Europa.

2.1. Il riequilibrio tra i poteri come prerequisito necessario ad ogni ipotesi di rafforzamento del Governo

Tra i commentatori, nel dibattito politico, ma anche in quello tra costituzionalisti, viene spesso rivolta una richiesta alle opposizioni politiche, ma anche a chiunque manifesti contrarietà all’elezione diretta del Capo del Governo, affinché assumano un atteggiamento “costruttivo”: si chiede loro di presentare una propria proposta di rafforzamento del Governo. Personalmente credo che ci si debba invece rivolgere ai fautori dell’elezione diretta per chiedere a questi – avendo essi certamente l’obbligo di essere “costruttivi” – che presentino un progetto di riequilibrio degli altri poteri, rappresentando questo un prerequisito necessario ad ogni ipotesi di rafforzamento del solo Governo. Certo bisognerebbe riuscire ad invertire le priorità, ma non è un’impresa impossibile. Ricordo, ad esempio, che al Senato sono stati depositati quattro disegni di legge costituzionali da parte di tutte le maggiori forze politiche per limitare l’abuso della decretazione d’urgenza. Un fenomeno – la decretazione d’urgenza – che è da porre tra le cause maggiori che hanno ormai compromesso il «rispetto degli equilibri fondamentali della forma di governo», nonché definito «un modo di legiferare caotico e disorganico che pregiudica la certezza del diritto». Come, da ultimo, ha avuto modo di dichiarare la Corte costituzionale nella sentenza n. 146 del 25 luglio 2024.

Ecco, si potrebbe partire da qua. Si potrebbe anche proporre una modifica dei regolamenti parlamentari per riaffermare, se non la centralità del Parlamento, almeno un suo ruolo autonomo rispetto a quello del Governo. Sarebbe questo un modo per cercare di razionalizzare la forma di governo prima di cambiarla. In fondo, come si auspicava sin dalle origini della nostra Repubblica, con il mitizzato, ma mai realmente considerato, o.d.g. Prassi.
Dopo, ma solo dopo, aver consolidato il potere più debole – quello parlamentare – potremmo immaginare di contrapporre a questo un Governo ulteriormente rafforzato. Forse tramite il meccanismo dell’elezione diretta del Capo dell’esecutivo, ma senza escludere altre forme di razionalizzazione più consone alla nostra tradizione parlamentare. Ci si può legittimamente chiedere se, giunti a questo punto, difronte allo scontro politico che si è ormai avviato e i toni aspri che esso ha ormai assunto, dopo che si è già consumato un primo passaggio del progetto governativo di revisione costituzionale al Senato, sia ancora possibile dare ascolto all’Europa e fermarsi per pensare a rafforzare il sistema dei contrappesi.

È ancora possibile? La risposta per un “chierico” non può che essere: in fondo è solo una questione di volontà politica.

3. Porsi alla ricerca delle cause della permanente instabilità

Passiamo ora a considerare il secondo rilievo segnalato della Commissione Europea. Ancor più sorprendente perché mette in discussione direttamente il dogma della maggiore stabilità, che rappresenta l’obiettivo indiscusso della riforma. Obiettivo che, peraltro, non viene da nessuno contestato. In effetti, che vi sia bisogno di rafforzare la stabilità dei governi nel nostro Paese è un’esigenza che è data per scontata. Eppure, io credo che, a ben vedere, non abbia torto l’Europa ad invitarci a riflettere su un’espressione – la stabilità – che riflette una realtà che è ben più articolata e complessa di quanto non si voglia solitamente ritenere.

Certo se pensiamo alla stabilità come durata degli esecutivi, i numeri parlano da soli: 68 governi in 77 anni dimostrano ictu oculi e senza possibilità di confutazione un dato di fatto, certamente una debolezza del sistema costituzionale italiano. Ma nulla ci dice invece sulle cause. Ora l’invito è a rivolgersi a queste, anche visti i fallimenti delle misure assunte sin qui negli ultimi trent’anni.

In effetti, non v’è dubbio che l’idea di dare stabilità attraverso l’elezione diretta del premier è solo l’ultimo tentativo – il più ardito, probabilmente – di una serie infinita che ha attraversato tutta la fase che va sotto il nome di democrazia maggioritaria. Già nel 1993 si prometteva di “restituire lo scettro al principe” (al popolo) e si indicava la via dei sistemi elettorali maggioritari per ridurre la frammentazione partitica, per garantire stabilità agli esecutivi, che sarebbero diventati di legislatura, che – si è ripetuto – sarebbero stati scelti di fatto direttamente dal corpo elettorale (con misure diverse: l’indicazione del leader della coalizione sulla scheda, attraverso premi, sbarramenti, artifici vari, tutti giustificati in nome della governabilità e stabilità dei governi). Una vera ossessione per la governabilità scollegata dalla effettiva rappresentatività delle forze politiche in competizione, che ha finito per produrre «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente» (come ci ha dovuto alla fine ricordare la Consulta, quando è dovuta intervenire sugli eccessi della legislazione elettorale, con la sentenza n. 1 del 2014).

L’esito è dunque stato fallimentare. Anche qui i dati sono inequivocabili: aumento della frammentazione e del numero dei partiti, crollo della partecipazione sociale ed elettorale, nessun aumento significativo e generalizzato della durata dei Governi. Ora ci si prova con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (ma sarebbe più corretto, a questo punto, definirlo Capo del Governo).

Se però volessimo fermarci un attimo e riflettere sulle cause della permanente instabilità scopriremmo che queste non sono istituzionali, non riguardano le modalità di investiture delle cariche di governo, non dipendono dalle regole elettorali: il fallimento del maggioritario lo dimostra. Perché insistere? Non sarebbe meglio volgersi a ricercare le
vere cause della instabilità che, in fondo, non sono difficili da scorgere?

Esse sono da far risalire principalmente alla profonda crisi di legittimazione del sistema politico che si è riflessa come perdita di autorevolezza e di capacità di governo degli esecutivi, e, più in generale, ha determinato la fragilità e indeterminatezza della politica. Lasciati – i governi e la politica – in balia dei non sempre lineari rapporti che si
instaurano tra le diverse forze organizzate che si uniscono per vincere un’elezione. Soggetti politici costretti a coalizzarsi da leggi elettorali premiali, ma che poi non sono in grado di governare assieme. Uniti per vincere, ma non per governare. L’instabilità è determinata dalla fragilità delle coalizioni e dalla incoerenza degli indirizzi politici, dalla mancanza in Italia di una reale cultura di coalizione. Un confronto con gli altri Paesi europei sarebbe utile: la Germania ovviamente, ma anche Spagna o Portogallo, dimostrano che coalizioni e stabilità possono convivere.

I nostri Governi di coalizione sono invece fragili, in perenne lotta interna e sempre sull’orlo di una crisi di nervi. I Governi durano poco in Italia, non v’è dubbio, ma le crisi sono tutte extraparlamentari. Questo dovrebbe far riflettere il riformatore illuminato. In fondo è questo ciò che ci chiede l’Europa.

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