Sono le risposte a queste domande che dobbiamo cercare insieme, non sarà facile, ma provare a rispondere potrebbe già aiutarci a trovare una strada da percorrere. «No hay caminos, hay que caminar… Caminar preguntando».
Le trasformazioni
Dalla fine degli anni ’70 abbiamo assistito a profonde trasformazioni del processo produttivo e dell’economia mondiale. Di conseguenza grandi trasformazioni nella società. Frammentazione sociale; fragilità dei legami sociali; delocalizzazioni industriali; debolezza contrattuale dei lavoratori; sostituzione, nelle strategie dei sindacati, della contrattazione con la concertazione; accentuazione delle differenze sociali tra una minoranza sempre più ricca e una maggioranza sempre più povera ecc. All’interno di una società incapace di desiderare e sperare, che rinuncia, sempre più narcisista, nella quale si fa strada definitivamente la cultura dell’individualismo proprietario. Una società che reagisce agli effetti contraddittori della globalizzazione richiudendosi in se stessa, nei localismi, cercando o recuperando identità fittizie e dando vita a spinte nazionaliste, sovraniste, xenofobe.
In una società così cambiata, così ripiegata su se stessa possono restare immutate le forme della politica? Crediamo proprio che non sia possibile: la “crisi della politica” è il sintomo più vivo dello stato di questa società. Invece di interrogarsi sulla sua crisi e sul suo ruolo, la politica diventa sempre più autoreferenziale. Concentrata sulla “governabilità”, intesa come la possibilità di essere rieletti, la politica mette in moto alchimie elettorali maggioritarie per dare più peso a chi vince le elezioni, nell’illusione, dichiarata, che questo possa dare più stabilità ma, in verità, come necessità di restare al potere. La democrazia della rappresentanza è così sostituita dalla “governabilità”, come se la democrazia fosse solo uno strumento e non la sostanza della politica.
I/le cittadini/e percepiscono la debolezza della politica e vivono la frattura tra società e istituzioni, così i/le partecipanti al voto diminuiscono drasticamente e costantemente ovunque, anche per le elezioni locali. Lontano da tutto ciò prendono corpo movimenti, spesso di scopo, occasionali, formati da cittadine e cittadini che si ritrovano sulla condivisione di bisogni prodotti dai territori o sui grandi temi dei diritti personali e collettivi. Nascono e si moltiplicano fuori dalla cerchia dei partiti, possono assumere dimensioni di massa così come possono restare minoritari e marginali, quasi sempre considerano le istituzioni nazionali e locali controparti. Spesso svaniscono quando lo scopo è raggiunto oppure sopravvivono per qualche stagione per poi ritrovarsi impegnati su un’altra emergenza o per altro scopo. Ci sono anche movimenti di massa che resistono da anni come quello No TAV o gruppi di giovani cittadine e cittadini che si organizzano nei Centri sociali e agiscono sul territorio costruendo comunità politiche antagoniste. Esperienze che resistono, nonostante siano sottoposte alla durissima repressione, spesso preventiva, dello Stato e della magistratura!
Questo ci dice che la politica attiva non è morta ma che ormai si manifesta e agisce in modi alquanto diversi e distanti dalla politica ufficiale. Ciò che hanno in comune queste esperienze è una pratica ribelle, distante dalle esperienze di movimento del passato, diverse anche dalle esperienze più “spontaneiste” del Sessantotto. La frammentazione alla quale è sottoposto il sistema produttivo si manifesta nella società e nella politica, dove è difficile portare a unità ciò che spesso è chiuso in atteggiamenti autoreferenziali o identitari.
La sinistra (intesa nel significato più generico) è la vittima più evidente di questo fenomeno. Dagli anni ’90 i tentativi di costruire un soggetto unitario della sinistra di governo o della sinistra antagonista sono falliti! La causa di trent’anni di fallimenti non può certo essere solo imputata alla soggettività dei protagonisti ma va ricercata nelle trasformazioni della società e della politica, che rappresentano un ostacolo oggettivo alla ricomposizione sociale e politica. Le trasformazioni in corso hanno cancellato la possibilità di costruire il “partito di massa”. Non si può piegare la storia alle soggettività, si può aprire alle utopie, meglio ancora se concrete, ma non ci si può riferire a una realtà che la storia ha superato, indietro la storia non torna! Nemmeno definendo, genericamente, tale desiderio un “soggetto nuovo” questo prenderà forma.
Sono mutate le condizioni oggettive e il modo soggettivo – ma di massa – di vivere il tempo, le relazioni, il lavoro e la politica. Non c’è spazio per il passato se non per interpretare il presente, c’è però l’urgenza di “leggere” il presente per inventare il futuro.
Il “cittadino”, quello immaginato dal pensiero illuminista, che si è fatto soggetto politico con la Rivoluzione francese, è ri-diventato “suddito” di forme di Stato eterodirette dai mercati, dai poteri finanziari e dalle imprese. Suddito di “regimi democratici” che fanno ricorso alla “pancia del popolo” per governare in modo autoritario. Suddito delle forme del “capitalismo della sorveglianza” che attraverso la rete ci fa tutti e tutte consumatori di prodotti immateriali e produttori di capitale attraverso il mercato dei big data che vengono estratti, arbitrariamente, durante la circolazione in rete.
A noi sembra di poter dire che quella “crisi della politica” sia a tutti gli effetti “crisi della democrazia della rappresentanza”. Ci sembra anche di poter dire che non ci troviamo di fronte a un incidente della storia ma a un processo profondo. Non sembra più possibile garantire la libertà tra eguali del “cittadino”, sembra che l’ineguaglianza sociale prenda il sopravvento annullando gli effetti dell’uguaglianza politica e della democrazia.
I movimenti e la democrazia a venire
Le risposte più diffuse alla crisi della democrazia della rappresentanza sono le derive autoritarie, anche stemperate, che si alimentano con l’ossessione della sicurezza, la diffusione degli apparati di controllo, i Daspo, le forme di repressione preventiva nei confronti dei movimenti, il giustizialismo, fino alle pratiche più violente, ma sempre più diffuse, della xenofobia e del razzismo sullo sfondo della cultura dell’antipolitica e del populismo.
C’è una alternativa a tutto questo? Certamente il richiamo costante e rigoroso alla Costituzione, al suo spirito, ai suoi principi, strumento formidabile per ostacolare qualsiasi autoritarismo. Ma non è sufficiente. Così come pare inadeguato il richiamo alla democrazia della rappresentanza quale unico strumento per garantire la democrazia. La sua crisi strutturale, per le ragioni analizzate, è il segnale che una “restaurazione” non è possibile. D’altronde la deriva descritta dura da trent’anni e si sta aggravando con il concorso di tutte le forze politiche del Parlamento. Pensare che non ci siano alternative alla democrazia della rappresentanza, se non quelle del populismo autoritario (e fascista) è, ancora una volta, guardare indietro senza aver compreso quello che viviamo oggi e abbiamo davanti.
Bisogna avere il coraggio di inventare la democrazia a venire, che non può che essere partecipata e capace di essere rappresentativa delle condizioni, dei bisogni, dei desideri dei “soggetti sociali”, che dai “cittadini” prendono la forma giuridica ma per divenire altro, liberati dall’individualismo proprietario che caratterizza il “cittadino” uscito dalla Rivoluzione francese.
Siamo certi che sia un cammino difficile, contraddittorio e minato da trappole che potrebbero essere fatali, ma non ci pare ci siano alternative: dobbiamo rischiare l’invenzione di un futuro che liberi la Terra dall’uomo pervasivo, che si manifesti nella differenza dei generi e liberi l’uomo dal tempo alienante della produzione delle merci e del capitale.
Non partiamo da zero, alle nostre spalle ci sono esperienze feconde e straordinarie come i Consigli di fabbrica, i Consigli di zona e quelli di quartiere. Ma anche l’esperienza studentesca del Sessantotto e della Pantera ci possono aiutare a trovare le forme attuali della democrazia partecipata. Nel presente la miriade di Comitati territoriali e di scopo, di Centri sociali e di Comunità solidali ci dicono che la democrazia a venire ha un futuro che può essere messo in gioco dalla partecipazione di tutte e tutti. L’importante è costruire azioni che possano imporre alle istituzioni forme di democrazia collettiva e partecipata, ma anche avere il coraggio di mettersi e mettere in discussione ciò che siamo stati e siamo, senza rinchiuderci in formule o tecnicismi (le piattaforme digitali) e semplificazioni (le politiche referendarie), che mortificano la parola quale manifestazione della politica del confronto permanente.
Il capitalismo globale della sorveglianza non è né riformabile né governabile. Una sinistra degna di questo nome non può che stare all’opposizione, agire all’opposizione per dilatare le contraddizioni del sistema (e favorirne il crollo), ma soprattutto, costruire l’opposizione sociale. Questo è l’obiettivo di una sinistra consapevole delle forme assunte dalla società contemporanea, della crisi della politica e con essa della crisi della democrazia della rappresentanza!
La costruzione del “partito della sinistra” è improponibile, così come quella di un “soggetto politico nuovo” che partecipi alla corsa elettorale per la rappresentanza politica, perché questa diventa secondaria di fronte all’esigenza di costruire la partecipazione all’opposizione sociale. Alle elezioni si può votare il “meno peggio” o dichiarare il “non voto” come opzione politica. Non è necessario parteciparvi con una lista di sinistra. Le difficoltà riscontrate ci inducono a pensare che quelle energie, quelle intelligenze debbano essere spese per ciò che è più importante. Credo si debbano usare tutte le risorse personali, culturali e politiche per dar vita all’opposizione sociale, unica strada attraverso la quale si può cercare un consenso e arrivare alla formazione di una coscienza politica di massa!
Oggi i tempi della politica sono lunghi e a questi dobbiamo prepararci.
La sinistra non può che essere antagonista, agire nei movimenti, garantirne la nascita e la durata. Favorire attraverso essi la costruzione di comunità politiche antagoniste, i primi nuclei di una forza politica alternativa capace di divenire “egemone” nella società e, successivamente, presente nelle istituzioni: “cambiare la società senza conquistare il potere”.
È una sfida clamorosa e paziente che si assume anche il compito di inventare nuove forme di democrazia partecipata di cui non conosciamo ancora precisamente le forme e la portata, ma delle quali conosciamo la forza aggregante e immaginativa, per le esperienze che si sono susseguite in questi anni, nonostante tutto. Probabilmente i movimenti non sono politicamente autosufficienti, ma sono l’unica manifestazione della politica attiva estranea, in buona parte, ai percorsi istituzionali compatibili con il capitalismo globale della sorveglianza. Si caratterizzano nelle forme prepolitiche della ribellione, così li fa il presente. Non è una scelta strategica o tattica, è la necessità politica della contemporaneità. Sono l’unico tentativo in atto di costruzione di un modo diretto di fare politica e democrazia. Per la sinistra stare lì dovrebbe essere “naturale”.
È una strada difficile, già appare arduo provare a metter insieme i diversi movimenti e pezzi di società attiva: centri sociali, movimenti del territorio, esperienze di scopo, comunità di volontariato ecc. perché hanno in comune una perversione legata al passato al quale non si vuole rinunciare: la matrice identitaria. Incapaci di rinunciare alla propria identità, che è poi una finzione, un mascheramento, una sostituzione della propria essenza, una sovrastruttura che nega la propria natura. L’identità non esiste, ciascuno è ciò che sente, che pensa e che fa, per questo può confrontarsi con chiunque, perché mette in gioco sé. Ma se ci portiamo dietro la corazza dell’identità non potremo che essere impacciati, in ritardo, irriconoscibili, sì certamente più difesi e sicuri, ma incapaci di comunicare ciò che si è!
Così questo percorso, che a noi appare inevitabile e obbligato, si carica anche del compito di trasformarci, di farci migliori, ma in fondo è questo lo scopo della politica: aiutare a capire, per agire il cambiamento, e quale cambiamento è possibile se non ci trasforma tutte e tutti? In mezzo a tante incertezze e dubbi una cosa la sappiamo, la rivoluzione alla quale aspiriamo dovrà cercare di abbattere ogni forma di dominio e di dominazione e avrà bisogno per questo della coscienza di classe, della coscienza di genere, della coscienza di specie, della coscienza di luogo ecc., per vincere o anche solo per resistere.