Una riflessione dello scrittore Carlo Lucarelli sul valore della memoria e del ricordo delle vittime innocenti delle mafie
In una recente indagine di Libera e Demos il 64% degli intervistati ritiene che le vittime innocenti delle mafie fanno parte della storia del nostro paese ma il 61% ritiene che sono poco o per niente ricordati e valorizzati dallo Stato.
Senza conoscenza non c’è memoria
È un po’ come quando in occasione della ricorrenza del 2 agosto 1980 viene chiesto ai giovani bolognesi cosa sappiano della Strage della Stazione e solo una percentuale sconfortante risponde in modo adeguato. Ma almeno l’80 per cento afferma che ne vorrebbe sapere di più, molto di più. E per me è quello il dato più importante, perché senza curiosità non c’è memoria, anche al di là della consapevolezza. Così, pur non essendo un esperto nella lettura di report, tavole e percentuali -o magari proprio per questo- il dato che più mi colpisce, qui, è quello di chi si ritiene insoddisfatto da come sono stati trattati, considerati e ricordati quelli che sono caduti contro la mafia. Quel sessantuno per cento che risponde poco o per niente alla domanda se vengano adeguatamente ricordati e soprattutto valorizzati dallo Stato. Dallo Stato. E quel cinquantasette che non li ritiene adeguatamente assunti ad esempio nella società italiana. La società italiana. Mi colpisce e mi conforta. Perché se vivessimo in un paese in cui la lotta alle mafie fosse soltanto un’azione di fisiologico contrasto alla sua parte criminale, allora potremmo attingere esclusivamente alla parte razionale delle cose. Dati, analisi, strategie e azioni di una naturale dinamica tra guardie e ladri. Ma l’Italia non è così -e neppure il resto del mondo lo è più, se pure lo è mai stato- e l’emozione, lo slancio, il fuoco di quella che è una vera e propria guerra, diventano necessari. In questo senso, l’insoddisfazione, una arrabbiata insoddisfazione, soprattutto tra le fasce più giovani, che magari non sanno abbastanza ma vorrebbero di più, liberi da sovrastrutture di abitudini e ricordi, ecco, quello diventa un sentimento importantissimo. Essenziale. La voglia di fare di più, che sia fatto di più, dallo Stato e dalla Società, oltre che dagli individui, in un Noi collettivo che deve diventare organico e sinergico, strutturale e costante. Più riconoscimenti a chi è caduto in questa guerra, più considerazione, un posto sempre più grande nella storia del nostro sfortunato e bellissimo paese. Anche al di là di qualche risposta figlia di un certo cronico e abituale pessimismo un po’ nichilista che spesso si accompagna alla mancanza di informazione. Portare sempre più in alto l’asticella del contrasto, il fuoco, arrabbiato e insoddisfatto, della lotta. La passione. Perché sappiamo benissimo per averlo visto troppe volte quanto un senso di compiaciuto appagamento, di rilassata soddisfazione, di solito indotti da chi ne traeva guadagno, ci abbiano fatto male
Pensare che le mafie siano state sconfitte o che comunque stiamo per vincere la guerra e quindi si possano tirare i remi in barca per un po’, concentrati su altre questioni che appaiono più importanti. Convincersi che il sentimento antimafioso faccia ormai parte del nostro dna, oltre che della nostra storia, per cui sia inutile continuare a parlarne, ricordarlo e rifletterci sopra al di là di una generica celebrazione. Perché dobbiamo concentrarci su questioni più urgenti. Il silenzio della mafia e il silenzio sulle mafie.
Quando ero piccolo -parlo degli anni ’60- girava una battuta in televisione, un vecchio sketch che credo risalisse ai tempi di Petrolini. Un comico si lamentava che sui cartelli delle strade cittadine ci fosse scritto “via Garibaldi” o “via Mazzini”, e invece bisognava dire “resta Garibaldi”, “resta Mazzini”. Ecco, non un granché come battuta, un po’ ingenua e anche molto retorica, e sbaglierò, ma ne ho sempre inteso il principio in un certo modo, e lo estendo anche a questo argomento. Abbiamo fatto molto nella lotta alle mafie, passi da gigante. Ma non basta. Le ricordiamo le nostre vittime, i nostri eroi, non li dimentichiamo. Ma non basta. Vogliamo di più, per loro e per noi, anche dalla Società e dallo Stato, sempre di più. Insoddisfatti e arrabbiati.