Con il Covid cresce il popolo degli affamati in fuga

La fame ai tempi della pandemia ha macinato terreno, l’Onu e le sue cinque agenzie preposte alla salute umana battono il gong con un rapporto congiunto e convocano due summit, il primo a Roma dal 26 al 28 luglio.

per Sbilanciamoci!

Le Nazioni Unite hanno pubblicato dati sulla fame nel mondo nel tempo della pandemia. Hanno lavorato all’unisono cinque istituzioni: Fao, Ifad, Unicef, Wfp, Oms. Un decimo della popolazione mondiale vive con la fame o muore di fame. A spanne, nell’ultimo anno preso in considerazione vi è stato un aumento presunto di un altro affamato ogni dieci persone, e si tratta come è facile capire, in misura rilevante, delle conseguenze – dirette e indirette – della pandemia del Covid 19 che ha tolto lavoro e spazi a tutti, ma a qualcuno di più. A soffrire la fame, all’inizio dell’anno in corso, sono poco meno di 800 milioni di persone di cui 418 milioni in Asia, 282 milioni in Africa, 60 milioni nell’area che comprende l’America centrale e i Caraibi.

Mentre dall’inizio del secolo la lotta contro la fame aveva avuto effetto, e i risultati lasciavano aperta la speranza di “sradicare” la fame per il fatidico 2030, la curva ha cambiato indirizzo nel 2014. L’aumento della pandemia-fame decorre dagli ultimi cinque anni, ma è stato nell’anno della malattia globale, il Covid 19, con tutte le sue conseguenze, che la situazione è peggiorata in modo che sembra inarrestabile: il dato ufficiale del 2019 era di 650 milioni, cresciuti a una cifra ancora incerta tra un minimo di 720 milioni a un massimo di 812, quanto a dire dall’8,4% del 2019 al 9,9% del 2020, scegliendo, con i metodi degli statistici dell’Onu, con i grafici e le previsioni scientifiche, un tasso intermedio, collocato tra il minimo del 9,2% e il massimo del 10,4%.

Una delle agenzie dell’Onu sopra citate, il WFP, ha organizzato con la casa madre e l’Unione europea uno speciale sistema di attenzione alla fame e al cibo, “Global Network against Food Crises” che fornisce uno speciale rapporto:  il “Global Report“, con quel che segue. Il presidente dell’Onu, il portoghese António Guterres, si è dato coraggio con un buon grado di ottimismo: “Non c’è posto per carestia e inedia nel ventunesimo secolo. Insieme possiamo farla finita con la fame”. Il rapporto è interessante per la ricognizione di tutti i paesi e i territori a fame prevalente e per la proposta di classificare la fame in cinque livelli. Minimal: famiglia in grado di procurarsi il cibo essenziale; stress: famiglia che ha il minimo di cibo per sopravvivere ma non può affrontare alcun’altra spesa; crisis: famiglia con buchi nei consumi di cibi essenziali; emergency: grandi buchi frequenti, cattivo nutrimento, ricerca di espedienti; catastrophe: estrema mancanza di cibo, la famiglia rischia l’inedia e la morte. Per la fase 3 vengono indicate 155 milioni di persone distribuite in 55 paesi, sempre gli stessi; quello che cambia è l’aumento di 20 milioni dal 2019; mentre sono 133.000 quelle che tra Burkina Faso, Sud Sudan e Yemen che erano nella fase 5, alla catastrofe, alla morte per fame.

Prima di andare avanti vorremmo essere sicuri di avere scritto bene. Solo nel caso dell’ultima cifra citata si tratta di migliaia persone. Gente a perdere, in Yemen, Sud Sudan, Burkina Faso: catastrofi, d’accordo, ma il mondo va avanti lo stesso. Negli altri casi a rischio sono milioni di persone, bambini, madri, vecchi; lavoratori che guadagnano troppo poco o perdono il lavoro: tutti soffrono per fame, vivono male, muoiono per fame. Quelli che lavorano, spesso guadagnano anche un dollaro al giorno e il costo minimo in cibo per sopravvivere a persona al giorno è stato calcolato, sempre dalle organizzazioni dell’Onu e da altri specialisti internazionali in dollari 1,90. Qualche economista smaliziato farà notare che un potere d’acquisto di un dollaro cambia, e molto, dagli Usa al Bangladesh per via del diverso costo della vita. Un dollaro di medicine vale però circa lo stesso qui e là. Non ci sono ancora vaccini che si pagano con dollari scontati per via del diverso e ridottissimo costo della vita. Per questo l’effetto dell’ultima pandemia del Covid 19 si somma a tutto il resto. Si muore per inedia e per carenza di farmaci indispensabili e troppo cari.

Buone letture

La situazione della fame è stata descritta in modo scientifico e appassionato,   storico-cronistico dallo scrittore argentino Martin Caparros con un libro “La Fame” pubblicato da Einaudi, premiato più volte, ma preso poco sul serio. Il libro è uscito in Italia nel 2015 e c’era modo di imparare qualcosa: racconta della stessa fame in parti diverse del mondo; fa la storia di padri e soprattutto madri che non hanno niente da offrire ai bambini. Tutto questo mentre erano in corso gigantesche speculazioni internazionali sui cibi e sulla terra, per garantire il guadagno ai pochi, ai padroni del mondo, dovunque fossero annidati, e togliere la terra e il cibo, il minimo cibo indispensabile e costringere i molti ad andarsene; o crepare. Invece di mettere sull’avviso, il libro è sembrato esagerato o sensazionalistico. Abbiamo però una recensione, gratuita, disponibile che si trova “chiamando”:  fame, caparros. Chiunque può almeno leggere quella, che è ancora in rete (Francesca Lazzarato, “Una violenta metafora della disuguaglianza che noi tutti accettiamo”, il manifesto 31-5-2015). Si descriveva la nostra avidità di ricchi sazi di tutto e la disperazione del mondo giovane, fuori di noi, senza niente. Cose del passato. Oggi per esempio, come si sa, gli immigrati, i famosi, invadentissimi clandestini, quelli radunati dagli odiosi trafficanti di schiavi, vengono qui per curiosità, per fare la bella vita, al limite per rubare; non per fame.

L’opposto alla fame è lo spreco. La stupidità della gente ricca e ben pasciuta (non noi, è chiaro!) si trova anche anche nella descrizione degli sprechi di cibo. Un testo di Saverio Pipitone “Cibo: più pregi, meno sprechi”, (Saverio Pipitone blogspot.com) rilanciato dalla “Bottega del Barbieri, il ben noto blog, esamina il piccolo “Atlante di disuguaglianze”, e i dati Fao e Unep. Lo spreco alimentare, il buon cibo buttato, vale 2.500 miliardi di dollari; per l’Italia si parla di 300 euro per famiglia. Un miliardo di tonnellate finisce ogni anno nella spazzatura e si tratta di cibo commestibile per l’80%. La metà dello spreco è spreco casalingo di cibo acquistato e non consumato; l’altra metà si perde e va in discarica passando nel variopinto sistema di distribuzione, senza arrivare alla bocca di qualcuno. Allo spreco è anche imputabile  un mare di 250 chilometri cubi di acqua potabile, nonché una nuvola di 3,3 miliardi di tonnellate di CO2. E possiamo continuare nella rassegna di Pipitone: 1,4 miliardi di ettari occupati per produrre cibi da buttare; 4 chili/persona di fertilizzanti spruzzati; 25% della deforestazione complessiva, 20% di tutti i danni alla biodiversità e per finire un apporto del 21% di tutti i rifiuti in discarica. C’è infine una sommessa lode di gruppi come il Gas (Gruppo acquisti solidali), ben noto in Italia, o il Csa (Comunità di sostegno all’agricoltura) che intendono connettere produttori e consumatori: due minuscole forme di contrasto allo spreco. Tali forme sono anche un invito alla riflessione pubblica sulla questione materiale del cibo: quelli che ne hanno poco o niente del tutto e quelli che ne hanno troppo e  sanno solo sprecarlo. Sono aspetti slegati, nella storia del mondo, nella geografia di questi anni, oppure sono connessi tra loro, con un elemento di dipendenza reciproca? Difficile rispondere in modo non ideologico, difficile suggerire soluzioni che non siano forme di assistenza, in grande, ai poveri della terra; oppure una severa educazione alimentare all’Occidente, obeso e malato di troppo cibo?

Per spiegare meglio quello che avviene e avviene e avviene, l’Onu propone  una distinzione tra coloro che rischiano ogni giorno di morire di fame e coloro che sono sempre affamati, non mangiano mai abbastanza e sopravvivono così, tentando a volte di fuggire e conquistare qualche dollaro in più altrove, con l’intento sia di ridurre il peso in cibo per la famiglia, sia di inviare qualche cibo a casa sotto forma di moneta spendibile dalla famiglia stessa. Gli affamati, disperati o quasi disperati, gli uni e gli altri, contati assieme, rappresentano un terzo degli umani, una persona su tre. Con i dati delle cinque agenzie dell’Onu abbiamo semplificato una tabella sulle percentuali relative agli affamati gravi e agli altri, quelli con fame continua ma non mortale e con disturbi di alimentazione, dovuti soprattutto alla indisponibilità di cibo sano, distinguendo le diverse fami, in tre anni diversi che mostrino l’andamento e tre diverse zone del mondo particolarmente soggette alla fame. Ci sarà una fame totale (tot), una fame, si fa per dire, modesta (mod) una fame grave (gra); tre anni 2014, 2019, 2020; quattro diversi mondi: il mondo intero, l’Asia del Sud, l’Africa, l’America centrale completata dalle isole dei Caraibi.

Con i dati che precedono come base di discussione è prevista per settembre a New York una due giorni dedicata a una grande iniziativa mondiale sul cibo (e la fame) e le prospettive al 2030 alla presenza di capi di stato e di governo. Occasioni del genere portano difficilmente a risultati eccezionali, escludendo il caso un’eventuale dichiarazione impegnativa che un grande governante si è lasciata scappare; tutto il resto è propaganda o affari sotterranei. Forse avrà esiti più significativi, almeno dal punto di vista dell’informazione e delle conoscenze, il pre convegno del 26-28 luglio che si terrà a Roma, in sede Fao, alla presenza di operatori e studiosi indipendenti o legati alle Ong, cioè non necessariamente ispirati o diretti dai governi. Ci saranno rappresentanti degli agricoltori, dei popoli indigeni:una possibile discussione aperta e concreta, per indicare il da farsi ai grandi della terra. Meglio, una possibile via di uscita, un programma, un obiettivo, un rinvio. Intanto a Cuba, isola dei Caraibi, o in Sudafrica, terra africana meno misera di altre terre a sud del Sahara, gli affamati cominciano a protestare.

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