Summit sul clima, tira una brutta aria

Di Massimo Gaggi – Corriere della sera

La Cina compra gas ovunque nel mondo e a qualsiasi prezzo e riapre le miniere di carbone che aveva disattivato per motivi ambientali. L’India un giorno sicuramente riuscirà a unirsi allo sforzo chiesto dall’Onu per l’abbandono dei combustibili più inquinanti. Ma per ora non solo non frena nel consumo di carbone, ma ne cerca disperatamente ovunque: la ripresa economica e industriale post Covid è stata più vivace del previsto e le centrali che producono energia elettrica (il 70 per cento delle quali brucia carbone) sono a corto di materia prima: quasi tutti gli impianti hanno scorte ridotte a una settimana, alcuni addirittura a due soli giorni. E negli Stati Uniti Joe Biden, elogiato per aver riportato il Paese negli accordi di Parigi sul clima (per di più con impegni rafforzati), per adesso è alle prese con un’inflazione più tenace del previsto e con una forte impennata dei prezzi dell’energia nonostante gli Stati Uniti siano, ormai, il maggior produttore mondiale di idrocarburi. Gas alle stelle anche in un’Europa sempre più dipendente dalle forniture russe.

Non tira una bell’aria alla vigilia del summit mondiale delle Nazioni Unite sul clima che si aprirà il 31 ottobre a Glasgow. (questa mattina il presidente russo Putin ha fatto sapere che non ci sarà, incerta la presenza del cinese Xi). Il ricorso alle fonti rinnovabili continua a crescere e in molti casi la produzione del solare fotovoltaico e dell’eolico è diventata competitiva. Ma i volumi sono per ora troppo limitati e ci sono problemi di stoccaggio e distribuzione da risolvere: Pechino e New Delhi possono anche prendere grossi impegni per la decarbonizzazione, ma la loro attuazione non potrà essere immediata. E se hanno ragione quelli che temono l’arrivo di una stagflazione (un micidiale incrocio nel quale i prezzi continuano ad aumentare nonostante l’economia sia ferma), dovrà passare un bel po’ di tempo prima che l’eliminazione del carbone torni in cima alla lista delle priorità.

Joe Biden non sta messo molto meglio: ha alzato l’asticella delle promesse, ma adesso deve pensare a domare un’inflazione che ha già cancellato tutti i benefici ottenuti dai lavoratori con gli aumenti salariali. La cosa che, in assoluto, ogni americano detesta di più, è l’aumento del prezzo della benzina: e quella americana è alle stelle. E, con l’arrivo del gelo invernale, si prevede una crisi pure sul fronte del gas e degli altri combustibili per il riscaldamento con una domanda comunque fortissima perché nell’era del global warming aumentano i fenomeni estremi: temperature anormalmente elevate ma anche improvvise gelate in regioni che non sono preparate ad affrontarle come avvenne l’anno scorso in Texas. Soprattutto, Biden rischia di presentarsi a Glasgow azzoppato dallo scontro all’interno del suo stesso partito che al Congresso sta bloccando l’iter del piano economico e di risanamento ambientale della Casa Bianca.

E’ stato appena calcolato da un istituto di ricerca che, per centrare l’obiettivo del promesso dimezzamento del CO2 entro il 2030 (rispetto ai valori del 2005), il presidente dovrebbe riuscire a concretizzare rapidamente tutto quello che c’è nel progetto di bilancio federale e nelle leggi proposte per dare attuazione al suo programma di governo. Molto difficile quando guidi uno schieramento che non è mai stato moto disciplinato, hai bisogno di tutti i 50 voti dei quali disponi al Senato e sai che lì dentro hai almeno due avversari irriducibili.

Uno, il senatore Joe Manchin del West Virginia, grande fan di carbone e gas dei quali il suo Stato è grande produttore, è stato corteggiato in tutti i modi da Biden che ha anche cercato di responsabilizzarlo affidandogli la presidenza della Commissione Energia del Senato. Manchin non si è intenerito e nei giorni scorsi ha fatto sapere alla Casa Bianca che, se non ridimensiona il piano per la transizione energica, non avrà il suo voto. Piombo nelle ali di Biden.

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