Le vendite dei giornali crollano, le edicole chiudono e le testate licenziano. In una società che continua a nutrirsi di notizie – il più delle volte sintetiche, semplici e frivole – l’informazione è spesso genuflessa alle logiche di mercato e al volere di editori ogni giorno più ingombranti. In un’intervista rilasciata alla direttrice de lavialibera Elena Ciccarello, Gad Lerner propone un viaggio dietro le quinte di quel che resta del quarto potere in Italia.
Il testo che segue propone alcuni brani estratti dal libro Giornalisti da marciapiede, Edizioni Gruppo Abele 2022, che sarà presentato al Salone internazionale del libro di Torino il prossimo 21 maggio. Le domande in grassetto sono di Elena Ciccarello, le risposte di Gad Lerner.
Perché ti piace definirti un “giornalista da marciapiede”?
Perché vorrei restasse il mio imprinting. Per me giornalista da marciapiede è un grande complimento. Non può esserci giornalismo senza immedesimazione. Partiamo dal marciapiede in tutti i suoi significati: di amore per il viaggio, di bisogno di prossimità con le persone, di piacere nello stare nel mezzo e nelle doppie letture. E allora mi va bene anche intenderlo come il posto di lavoro della “battona” da marciapiede, anche lei proletaria sfruttata. Il guaio è che oggi l’espressione molto più spesso può significare che, se sei un giovane che cerca di fare informazione di qualità sul territorio, vieni destinato ad essere un giornalista da marciapiede nel senso che sei tornato anche tu a essere proletario. (…)
Di recente vi sono state acquisizioni di testate da parte di imprenditori che gestiscono affari ben altrimenti redditizi in settori lontani dall’editoria. Cosa se ne fanno di giornali in perdita?
(…) Pur svantaggiosi economicamente, i giornali continuano a servire all’establishment come strumenti di pressione. Costano tutto sommato poco, per chi fa profitti elevati in altri settori, e nel sistema italiano risultano utili, non solo a un colosso finanziario come Exor, ma anche a imprenditori di minor stazza. Nel caso degli Elkann-Agnelli, dopo il cambio di proprietà di Repubblica abbiamo assistito a una trattativa con il Governo in carica per ottenere un prestito multimiliardario, poi ripagato. Subito dopo è partita una campagna del giornale contro il governo Conte II, sostenuto dal Movimento 5 stelle e dal Pd, auspicando che le leve decisionali pubbliche venissero assegnate a tecnici più graditi dalle imprese.
La nascita del governo Draghi ha goduto di una forte sponsorizzazione mediatica. Anche gli incentivi pubblici al settore dell’automotive hanno trovato un sostegno costante nelle pagine dei giornali Gedi. Ma non sarei necessariamente così venale. È vero che Repubblica si è compromessa anche nel fallimentare tentativo della Juventus di dare vita alla Superlega in contrapposizione all’Uefa. Ma ha ragione chi sostiene che questi legittimi interessi aziendali potevano trovare udienza nei giornali anche senza bisogno di comprarli. Probabilmente contano pure altri fattori, la ricerca di prestigio e, perché no, una certa vanità. In fondo, è stato fatto notare che per comprare Repubblica e la catena dei giornali locali ad essa collegata (e in buona parte smantellata) John Elkann ha speso meno che per comprare Cristiano Ronaldo.
Poi ci sono imprenditori meno noti che rilevano testate giornalistiche. Chi glielo fa fare?
È vero. Da ultimo proprio Gedi ha ceduto al presidente della Salernitana, Danilo Iervolino, una testata storica a me cara come L’Espresso. Si tratta di un imprenditore che ha fatto molti soldi vendendo l’Università telematica Pegaso. Vedremo cosa se ne farà: un modo per entrare nel salotto buono del capitalismo italiano? Dubito che s’illuda di guadagnarci. Più spiegabili sono gli interessi che hanno mosso gli Angelucci, una famiglia titolare di cliniche private che necessitano di convenzioni con le Regioni, a imbarcarsi nell’editoria.
Politicamente orientati a destra, tanto che il capofamiglia è stato eletto in Parlamento con Forza Italia, hanno rilevato il quotidiano Libero. E hanno operato più di un cambio di direttore pur di mantenere sempre un buon rapporto col Governo in carica. Ma non si sono accontentati, volendo contare, almeno in passato, su buone relazioni trasversali in tutti gli schieramenti. Non dimentico quando fecero un serio tentativo di comprare anche l’Unità, stoppato solo all’ultimo momento. Curioso – vero? – che lo stesso editore potesse pubblicare un giornale di destra e uno di sinistra. Ma forse ci dice qualcosa riguardo a come certi imprenditori vogliano farsi amica la politica di cui hanno bisogno. All’epoca, fallito il tentativo di prendere l’Unità, si accontentarono de il Riformista che però ebbe vita breve.
E Carlo De Benedetti? Cosa se ne fa del Domani?
Carlo De Benedetti è un anziano signore che non ha più interessi imprenditoriali diretti, da quando ha ceduto ai suoi figli il pacchetto di azioni Cir. Dopo tanti anni a Repubblica gli è rimasta la voglia di fare l’editore e di intervenire nel dibattito pubblico italiano. Certo, Domani è un ridimensionamento, un giornale molto più piccolo di Repubblica, anche se sulle sue pagine trovo sempre articoli interessanti, avendo lui e il giovane direttore Stefano Feltri messo insieme una squadra di collaboratori di qualità. È un club nel quale persone di buon livello culturale e con competenze in diversi settori fanno sì che venga pubblicato sempre qualcosa di originale e di approfondito. (…)
A partire dal 1993 sei stato per tre anni vicedirettore de La Stampa. Che rapporto avevi con la proprietà di allora?
(…) L’Avvocato nutriva grande passione per il giornalismo, era incuriosito dalle mie origini ebraiche mediorientali e dai miei trascorsi. Ciò detto, al di là degli scambi di lavoro, non abbiamo mai sviluppato una particolare confidenza. In quegli anni il proprietario di una società editrice manteneva un rapporto di rispetto con la redazione. Quando gli arrivavano le proteste di qualcuno a cui avevamo pestato i piedi ce le riferiva sdrammatizzando e senza mai chiedere correzioni di linea. A me, in particolare, teneva a comunicare, probabilmente esagerando un po’, il suo legame con l’universo della fabbrica e delle sue maestranze. Gli anni dei conflitti sindacali erano ormai lontani. Ci teneva piuttosto a rivendicare la sua confidenza con Luciano Lama, quanto si sentisse più vicino a lui che a nuove figure della scena imprenditoriale come Silvio Berlusconi.
Il tuo rapporto con la nuova proprietà degli Elkann, che hanno acquisito l’intero gruppo Gedi, non è stato altrettanto buono.
Oggi l’impronta padronale sui giornali si avverte fortissima. Il proprietario ha di nuovo in pugno la redazione. Il giorno stesso in cui gli Elkann hanno assunto la proprietà di Repubblica ne hanno cacciato il direttore, Carlo Verdelli, senza alcuna motivazione e senza neppure preoccuparsi del fatto che in quel momento Carlo fosse oggetto di minacce prese molto sul serio dalla polizia. Verdelli è un’altra persona a cui devo molto. Mi aveva preso a collaborare al Corriere della Sera quando ero disoccupato, dopo le mie dimissioni dal Tg1. Ma, soprattutto, Verdelli è un grande inventore di linguaggi giornalistici innovativi, capace di entrare in sintonia col suo pubblico dirigendo testate diversissime tra loro come La Gazzetta dello Sport, Vanity Fair, Oggi.
Continuo a pensare che fosse l’uomo giusto per rilanciare Repubblica, che viveva un momento di declino. Non gliene diedero il tempo. Il messaggio inequivocabile del suo brutale licenziamento è stato uno solo: qui comando io, quindi vai fuori dai piedi senza nessuna motivazione, senza neppure un saluto, senza neppure un ringraziamento sul giornale. Tanto che il nuovo direttore, subentratogli dall’oggi all’indomani, non si premurò neppure di citarlo nell’editoriale di esordio. Mai vista una roba così. Congegnata affinché la redazione capisse l’antifona: “Ragazzi miei, lo sapete che siete troppi e non so quanti riuscirò a sistemarne con i prepensionamenti, per cui è possibile che alcuni di voi debbano essere licenziati. Sappiatelo, vi ho fatto conoscere i nuovi metodi aziendali, qui non si sgarra, si portano avanti i miei interessi e i miei desiderata”. Gianni Agnelli non si sarebbe mai comportato così.
Se questa è l’impronta che si vuole dare al giornale, non restano spazi per fare buon giornalismo?
Ci mancherebbe, Repubblica ospita ancora ottimi articoli perché ha giornalisti e collaboratori eccellenti. La mia scelta di andarmene, due settimane dopo il licenziamento di Carlo Verdelli, e senza ancora aver neanche preso in considerazione di passare a il Fatto Quotidiano, mica vuole suonare a critica di chi è rimasto. Ognuno fa le sue scelte, e fortunato chi, come me, ha potuto permettersi di farle senza gravi sacrifici, solo un taglio di compenso. Ma, lo confesso, restando mi sarei sentito di fare la foglia di fico. (…) Sono andato via potendomelo permettere, non voglio qui dipingermi come un eroe, e ribadisco grande rispetto per i colleghi che invece sono rimasti. Ma resta il fatto evidente che quel nostro giornale ha cambiato natura, intanto che la proprietà si liberava dell’Espresso e di MicroMega.
Perché ti danno fastidio i giornalisti che si vantano della loro schiena dritta?
Trovo insopportabile la retorica di quella autodefinizione vanesia, e trovo insopportabili quelli che attribuiscono virtù eroiche al giornalismo che non si piega al dettato degli editori e dei poteri. Quasi tutti abbiamo fatto dei compromessi – perché negarlo? –, io sicuramente ne ho fatti, anche se spero non disonorevoli. (…) Mediamente si fa carriera proprio perché si è disposti a fare qualche compromesso. Tanto è vero che vengo spesso accusato di avere tradito i miei ideali di gioventù per farmi strada. Credo che capiti soprattutto perché non nascondo il mio benessere né chi frequento. Troverei ipocrita fare il lagnoso, visto che mi è andata di stralusso. (…) Me lo ripeto sempre: non c’è nulla di più detestabile del vittimismo dei privilegiati.
I giornali fanno fatica e le nuove generazioni non li leggono più. Perché dovremmo salvarli?
Perché ne va di mezzo la democrazia, di cui l’informazione accurata e pluralista costituisce un presupposto indispensabile. Anche chi teorizzava la possibilità di abolire la mediazione giornalistica, grazie alla rivoluzione digitale, ha dovuto prendere atto della propria inadeguatezza. Vuoi una data simbolo di questa “resa”? Lunedì 19 maggio 2014, la sera in cui Beppe Grillo fece ritorno da “mamma Rai” accomodandosi nientemeno che su una poltrona bianca di Porta a Porta, ospite di Bruno Vespa. Gli estremi che si toccano. Chi con superbia scommetteva di vincere l’informazione di regime prendendola alle spalle, grazie alla potenza del web, ha finito per dare nefasto impulso alla disinformazione, contribuendo a togliere spazio all’informazione di qualità.
Paradosso dei paradossi, inoltre, anche l’informazione più agile del web, disintermediata e quindi meno costosa, non è riuscita a dotarsi del necessario autofinanziamento. Sicché, il tentativo di superare il giornalismo di noi “prezzolati” si è concluso con Beppe Grillo che firma un contratto da 10 mila euro al mese per il suo sito con l’armatore Vincenzo Onorato, bisognoso di sostegno lobbistico in Parlamento. Alla fine anche la Casaleggio Associati, che si autorappresentava contropotere mediatico alternativo all’informazione asservita all’élite finanziaria, ha stipulato accordi con la multinazionale del tabacco Philip Morris. I siti che avrebbero dovuto contrapporre la propria indipendenza ai “poteri forti” alla fine ne hanno avuto bisogno.
Questo cosa significa?
La verità è che la mediazione giornalistica rimane uno strumento, di più, una forma di cultura indispensabile, alimento di cui una società democratica non può fare a meno, né oggi né domani. La crisi in cui versa il giornalismo italiano va perciò trattata per quello che è: una vera e propria emergenza. (…)
Come si può sostenere economicamente un’informazione di qualità?
Certamente dovremo fare prima o poi i conti con un riassetto strutturale degli stessi equilibri redazionali. A meno di accontentarsi di subire passivamente le dinamiche del mercato, che stanno già provocando la chiusura di numerose testate e il decadimento qualitativo di quelle che sopravvivono in costante erosione di lettori. Per il futuro non sono immaginabili strutture pachidermiche, composte da molte centinaia di giornalisti e da redazioni locali sovradimensionate. (…)
Quanto al tema cruciale della formazione dei giornalisti, resto convinto che la si debba fare prevalentemente all’interno delle redazioni e sul marciapiede. Solo così può rivitalizzarsi la capacità di empatia, di indagine e di racconto della realtà. Ma ciò richiede la disponibilità di tempo e di mezzi per viaggiare e per studiare, quindi anche di soldi. Bisognerà trovare forme di sostegno pubblico che non siano quelle surrettizie e clientelari di oggi.
Quale tipo di finanziamento immagini?
Non mi addentro su questo terreno sdrucciolevole, perché mi manca la competenza necessaria. Posso solo dirti che, avendoci riflettuto, sono convinto sia necessario sostenere l’informazione di qualità anche attraverso la fiscalità generale. Lo so che parlare di contributi pubblici all’editoria richiama pessimi esempi del passato: passaggi di denaro a giornali lottizzati che vivevano esclusivamente di finanziamento pubblico o, peggio, di partiti che si finanziavano fingendo di avere organi di stampa, che ricevevano fior di quattrini, ma che nessuno ha mai letto. (…)
Sarà difficile trovare il modo di non incappare in queste furbizie, finanziando la ristrutturazione delle testate esistenti e favorendo la nascita di voci nuove, frutto di imprenditoria giovanile. Però non intravedo alternative, almeno in Italia. Perché la disinformazione non solo aggrava il tasso d’ignoranza. Si configura sempre più come una minaccia alla democrazia. Lo abbiamo verificato con il clima di isteria che ha funestato il dibattito pubblico sui provvedimenti necessari in tempo di pandemia Covid. E in forme, se possibile, ancora più acute quando la guerra alle porte si è trasformata anche in guerra mediatica, tale da calpestare ogni pensiero critico.
Chi dovrebbe intestarsi questa battaglia per la ricerca di nuove forme di finanziamento al giornalismo?
Dovrebbero intestarsela i giovani giornalisti, che sono costretti a stare sul marciapiede, ma che di questo marciapiede potrebbero farsi anche portavoce, non potendo più accettare le condizioni in cui vivono e lavorano. Mi vergogno quasi a dirlo, perché sento già le obiezioni: “Da che pulpito viene la predica!”. Però ti assicuro che se a me è andata così bene, dipende anche dal fatto che in gioventù non ho fatto calcoli di convenienza e di carriera. Bisogna rischiare molto. Solo chi sperimenta forme nuove di comunicazione verrà poi anche corteggiato dall’establishment giornalistico. (…)
In fondo il giornalismo è una disciplina nobile come la musica, l’arte, la letteratura; sono l’originalità dell’approccio e del racconto a conferirti forza contrattuale. Non c’è calcolo di consorteria in redazione che possa aiutare. Intanto che lo propongo, mi rendo conto degli ostacoli che oggi toccherà affrontare per provarci, sono il primo a riconoscerlo.
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