A distanza di tre decenni dall’attentato in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta del giudice, le mafie si sono insinuate in tutti gli interstizi tra lecito e illecito, colmando le aree grigie che si formano nelle interazioni tra sistema politico, sistema economico e sistema sociale.
Fabio Armao 23 Maggio 2022 – Micromega
Uno degli effetti collaterali di una commemorazione così importante, che segna il definitivo superamento di un’intera generazione dai giorni degli attentati di Palermo, è che ti consente (ti costringe, in realtà) a fare un bilancio di come è evoluta la situazione da allora. Non voglio fare alcun riferimento alla dimensione politica, perché ignavia, ignoranza o esplicita collusione sono stati in questi tre decenni i marker indelebili di un sistema politico in buona sostanza incapace, a livello locale quanto nazionale, di “pensare” la lotta alla mafia (e non solo in Italia) – tranne riscoprirla occasionalmente per motivi di opportunismo elettoralistico o per rintuzzare le grida di allarme lanciate dai magistrati alle inaugurazioni degli anni giudiziari. Guardiamo ai fatti, per usare un’espressione tanto ricorrente quanto rassicurante nei dibattiti pubblici:
– in questi giorni sono frequenti i richiami al fatto che i processi sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio, come pure quelli sulla trattativa stato-mafia, non sono riusciti a far luce sui mandanti politico-istituzionali del terrorismo mafioso. Esiste, tuttavia, un problema storiografico molto più rilevante che riguarda l’incapacità di inquadrare la violenza mafiosa all’interno del più ampio contesto degli “anni di piombo”. Tra il 1960 e il 1993 le mafie, in Italia, uccidono 242 tra rappresentanti delle istituzioni e della società civile (cui vanno aggiunte le 10 vittime degli attentati di Milano e Firenze), il terrorismo di sinistra 157, il terrorismo di destra 47 (148 sono le vittime delle stragi). Di queste 242 vittime individuali, 149 vengono uccise in Sicilia, 102 nella sola città di Palermo. Questo semplice dato avrebbe dovuto sollecitare una discussione sull’esistenza di una specifica “questione siciliana”, direi persino “palermitana”, nella storia d’Italia di cui, invece, non si trova traccia;
– si continua a parlare di mafia come entità criminale pretendendo di ignorare l’evidenza che il vero problema sociale è la “borghesia mafiosa” che la circonda, permettendone la sopravvivenza e traendone anche cospicui profitti: politici corrotti e imprenditori collusi, certo; ma anche tutti quei rappresentanti delle libere professioni – avvocati, commercialisti, banchieri, broker finanziari – senza le competenze delle quali i mafiosi non potrebbero garantire la sopravvivenza dei propri clan;
– il contributo di queste professionalità è diventato tanto più indispensabile quanto più le mafie sono evolute in questi ultimi decenni in vere e proprie agenzie transnazionali in grado di vendere beni e servizi illeciti a una quantità crescente di attori anche del mondo legale. Ai tradizionali settori dell’estorsione e del traffico di droga si sono via via aggiunti quelli del traffico d’armi, di rifiuti tossici, di esseri umani (manodopera schiava), cui vanno aggiunte tutte le attività richieste per consentire il riciclaggio del denaro sporco e che comportano una crescente infiltrazione delle organizzazioni criminali nell’economia lecita.
In estrema sintesi, le mafie hanno finito col rappresentare quel che i fotografi definiscono lo spazio negativo: l’area sulla quale l’occhio non si focalizza, che circonda il soggetto e che comunque contribuisce a definire l’insieme. Tendono cioè ad insinuarsi in tutti gli interstizi tra lecito e illecito, a colmare le aree grigie che si formano nelle interazioni tra sistema politico, sistema economico e sistema sociale. Le mafie sono la struttura portante di qualsiasi mercato nero, che si tratti di quello generato dalla pandemia di Covid-19 o dalla guerra in Ucraina cambia poco.
Ma rientriamo nell’Italia dei primi anni Novanta. Le indagini e gli arresti infliggono, certo, un duro colpo all’ala militarista di Cosa nostra; ma l’organizzazione è troppo sofisticata, radicata nel territorio, intessuta nella trama di relazioni interpersonali della società siciliana per non sopravvivere alla fine ingloriosa di alcuni boss. Se poi ampliamo lo sguardo all’Italia nel suo insieme, il quadro è ancora più drammatico: le mafie, ’ndrangheta in testa, si lanciano nella colonizzazione del centro e del nord del paese lucrando anche sulla crisi dei partiti tradizionali, riempiendo i vuoti di potere da essi lasciati, sfruttando a proprio vantaggio quella propensione al clientelismo e alla corruzione delle élites sociali che proprio Tangentopoli aveva contribuito a disvelare.
A fronte di tutto ciò, gli unici anticorpi al dilagare della mafia rimangono la magistratura e le forze dell’ordine, le cui indagini in questi ultimi anni ne hanno ampiamente dimostrato la capillare presenza, tutt’altro che innocua, dalle province piemontesi, lombarde e venete fino a Roma capitale, dagli appalti pubblici ai cantieri edilizi proliferati con il bonus 110 per cento. Il problema “metodologico” è che la loro non può che essere una conoscenza ex-post, destinata a far luce su eventi passati, e ristretta al campo delimitato dalle notizie di reato. Ciò significa, dal punto di vista dello studio delle mafie, inseguire gli eventi con il risultato di essere comunque sempre in cronico ritardo.
Eppure, esistono almeno due immensi campi nei quali la ricerca, prima ancora che si attivino le indagini, potrebbe offrire un contributo rilevante. Il primo riguarda il monitoraggio dei territori reso possibile dalle banche dati e dalle tecnologie di georeferenziazione oggi disponibili. Per fare degli esempi, basti pensare alla mappatura preventiva degli ex-capannoni industriali e delle cave abbandonate che potrebbero diventare altrettante discariche abusive di rifiuti, o all’analisi dei cambi di proprietà e di gestione degli esercizi commerciali, la cui frequenza può diventare indicatore di operazioni di riciclaggio e, più in generale, dell’andamento del mercato immobiliare, un settore tradizionale di investimento dei profitti mafiosi. Il secondo campo comprende l’incrocio dei dati finanziari: dai conti correnti e dalle dichiarazioni dei redditi fino all’acquisto di beni di lusso facilmente rintracciabili (auto, yacht, gioielli) che potrebbe far emergere e rendere misurabile almeno in parte l’economia sommersa – oltre a fornire un contributo significativo alla lotta all’evasione fiscale.
Si tratta, è ovvio, di campi sui quali è facile aspettarsi obiezioni in termini di rischi di violazione della privacy da parte di partiti che dalle zone grigie al confine tra lecito e illecito attingono consensi comunque indispensabili in un contesto di alta volatilità del voto. Il fatto, tuttavia, è che la ricerca delle scienze sociali in questi campi potrebbe essere condotta senza accedere ad alcun dato sensibile; lasciando semmai alle autorità competenti il compito di indagare sulle possibili anomalie riscontrate.