Archiviata la pausa pandemica le emissioni di Co2 hanno ripreso a salire già nel 2021 superando i 36 miliardi di tonnellate, il 6% in più dell’anno prima. Di recente il quotidiano britannico Guardian ha pubblicato un’inchiesta sui progetti a cui lavorano i più grandi gruppi energetici del mondo. Sono totalmente incompatibili con gli obiettivi di contrasto al surriscaldamento globale.
di Mauro Del Corno | 29 GIUGNO 2022
Moriremo di proposte e annunci sul clima. I leader del G7 hanno deciso di creare niente di meno che un “Club del clima” per rafforzare e ampliare la cooperazione nella lotta contro il riscaldamento globale. In realtà dal vertice, ufficialmente dedicato al clima, sono usciti impegni che vanno nella direzione opposta rispetto a quella che andrebbe seguita per combattere il surriscaldamento globale. Nel comunicato finale si legge che gli investimenti in gas liquefatto sono la risposta necessaria alla crisi in corso aggiungendo che “in questa fase eccezionale il sostegno pubblico a nuovi investimenti nel settore del gas sono una risposta temporanea adeguata”. Mentre si predica bene e si razzola male come stanno andando veramente le cose? Male.
Archiviata la pausa pandemica le emissioni di Co2 hanno ripreso a salire già nel 2021 superando i 36 miliardi di tonnellate, il 6% in più dell’anno prima. Certo, a livello globale l’Europa si comporta meglio degli altri, ma non è detto che questo continuerà nel 2022 visto che diversi paesi europei (Germania e Italia inclusi) hanno annunciato la riattivazione di centrali a carbone, il più inquinante dei fossili, per far fronte all’emergenza innescata dalla guerra in Ucraina. Intanto, nel mondo, i consumi di petrolio non scendono, anzi salgono. Continua ad aumentare anche il consumo di petrolio che nel 2023 supererà i 101 milioni di barili al giorno, sopra i valori pre Covid. Al di là degli annunci insomma gli interventi concreti non sembrano al momento adeguati alla gravità del problema. Il tempo passa e la frequenza di eventi metereologici estremi si intensifica drammaticamente. L’impressione è che la situazione stia sfuggendo di mano.
In particolare i progetti analizzati, alcuni dei quali già avviati, comporterebbero emissioni aggiuntive di Co2 pari a quelle prodotte in dieci anni dalla Cina solo nel breve termine. In prospettiva di una quantità di Co2 pari a diciotto anni di emissioni globali, 646 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. I nomi sono i soliti: Exxon Mobil, Chevron, Shell, British Petroleum, Saudi Aramco , la russa Gazprom, la cinese PetroChina e anche l’italiana Eni. I primi 12 gruppi petroliferi al mondo si avviano a spendere 100 milioni di euro al giorno da qui al 2030, per sviluppare nuovi giacimenti di gas e petrolio. Gazprom, ExxonMobil, Shell e PetroChina sono le major che stanno investendo nei progetti più inquinanti. Secondo altre stime nei prossimi otto anni verranno spesi 930 miliardi di dollari per sviluppare nuovi campi di estrazione di idrocarburi.
Purtroppo, secondo gli esperti, dal sottosuolo non dovrebbe essere più estratto un grammo di carbone o una goccia di petrolio. I fossili dovrebbero essere lasciati lì dove stanno. Nessun paese al mondo ha davvero sottoscritto questo impegno. Ecco perché è un segreto di pulcinella il fatto che il limite fissato negli accordi di Parigi (contenere a 1,5 gradi l’incremento della temperatura globale rispetto ai valori pre-industriali) sia già “bruciato”. “Il mondo è in corsa contro il tempo. È giunto il momento di dire addio ai finanziamenti ai combustibili fossili e fermare le esplorazioni di nuovi giacimenti” ha detto il segretario generale delle Nazioni unite Anton Guterres che in merito alla situazione creata dalla guerra in Ucraina, ha aggiunto: “I paesi potrebbero essere messi in difficoltà dall’emergenza al punto da accantonare le politiche per ridurre l’uso di combustibili fossili. Questa è una follia. La dipendenza dai fossili significa distruzione assicurata”.
Mentre i fiumi evaporano sotto i nostri occhi, l’Italia fa sponda con la Germania per cercare di rimandare la data dello stop europeo alla vendita di nuove auto a benzina e diesel. Non sarà questo divieto a salvarci ma, di nuovo, l’atteggiamento delle lobby industriali e la morbidezza dei governi dà il senso di come permanga viva l’illusione di avere ancora tempo e non ci sia la percezione dell’emergenza. L’Eni, controllata al 30% dallo Stato, continua a puntare forte sul gas e ostacola progetti, come l’elettrificazione della Sardegna, che prevedono di lasciarsi alle spalle più rapidamente questo combustibile. La guerra in Ucraina ha complicato le cose ma non è una giustificazione per temporeggiare di fronte ai rischi immensi a cui andiamo incontro.