Audizioni in Senato sul ddl 615: l’intervento dei comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti

I comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti hanno iniziato il proprio lavoro di contrasto al processo di autonomia differenziata nell’ottobre del 2018, come ‘tavolo scuola’, quando – nonostante la scarsità di notizie relative al tema – ci sembrò che fosse in atto un pericoloso attacco alla scuola della Repubblica, spina dorsale del Paese, strumento di determinazione dell’unità e dell’identità culturale della nazione e del popolo italiani.

Ben presto, nel giugno del 2019, ci siamo resi conto che l’attacco riguardava potenzialmente ben 22 materie ulteriori, alcune delle quali altrettanto pericolose (sanità, ambiente, tutela del territorio e dei beni culturali, sicurezza sul lavoro, infrastrutture, alimentazione, energia, rapporti con l’UE, solo per citarne alcune).

I Comitati in tutti questi anni hanno studiato, informato, mobilitato e sono stati promotori di un Tavolo contro l’autonomia differenziata che raccoglie oggi decine di associazioni, gruppi, comitati, sindacati di base, la Flc-Cgil, ecc.

Il nostro giudizio sulla riforma del Titolo V del 2001 si basa su alcuni pronunciamenti autorevoli: quello del prof. Gianni Ferrara, ad esempio, che la definì “un manifesto di insipienza giuridica e politica” e – da ultimo – quello del prof. Gian Maria Flick, che ha parlato di “riforma frettolosa e disorganica, destinata ad aumentare le diseguaglianze nel Paese”. Ė per questo che, nel corso della nostra ormai quinquennale attività, abbiamo insistito – quale provvedimento di emergenza, ferma restando la nostra critica radicale a tutto l’impianto della riforma del 2001 – sulla necessità della cancellazione del c. 3 dell’art. 116 Cost., che comporterebbe l’impossibilità per le regioni a statuto ordinario di accedere alla potestà legislativa esclusiva fino a 23 materie, previste nei c. 2 e 3 dell’art. 117 Cost.

L’autonomia differenziata provocherebbe una drammatica frammentazione non solo territoriale, in cui la centralità della persona umana – una premessa e una promessa della Carta dense di significati e di un dialogo imprescindibile con la partecipazione, con la rappresentanza e con la funzione delle formazioni sociali – si trasformerebbe definitivamente nel suo contrario: la competitività tra le persone, che richiama l’hobbesiano homo homini lupus. L’autonomia regionale differenziata cavalca questa deriva, la promuove e la asseconda nello stesso tempo. Dal ‘prima gli italiani’ al ‘prima i veneti, i lombardi e gli emiliano-romagnoli’ il passo è stato brevissimo. Ormai è una corsa ad ‘essere primi’, una lotta generalizzata di tutti contro tutti. Si prenda il caso delle regioni a Statuto speciale: il testo del ddl 615 prevede addirittura la possibilità per le regioni a statuto speciale e le province autonome di accedere a “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

L’aspirazione principale è quella di sfrondare orpelli ed ostacoli inutili per procedere il più liberamente possibile nella corsa verso un primato, il primato: quello del profitto sui bisogni delle persone (si pensi, ma non è che un esempio, alle dichiarazioni di ieri di Gianni Mion, braccio destro della famiglia Benetton, relativamente al crollo del ponte Morandi); quello della conduzione solitaria di processi di cambiamento che investono la vita di donne e uomini, annullando qualsiasi spazio di discussione e di confronto; quello del privilegio del più ricco, a dispetto delle diseguaglianze che si moltiplicano nel Paese; quello dell’uomo solo al comando, il cosiddetto “Governatore” della Regione, in modo che sempre più si limitino conoscenza, accesso, spazi di democrazia.

Riteniamo i primi 12 artt. i fondamenti e i principi della Costituzione, e tra questi l’art. 5, che afferma il principio del regionalismo cooperativo e la sussidiarietà verticale, ma non orizzontale, prevista dall’art. 118 Cost., che ha aperto la strada alle privatizzazioni e al taglio delle spese per la Pubblica Amministrazione, di cui tutti noi paghiamo le inefficienze a causa della carenza di personale e della mancanza di competenze. Da un regionalismo senza modello si passerebbe a un regionalismo impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di “tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal 2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore frammentazione dell’assetto istituzionale.

L’autonomia differenziata è una questione italiana, soprattutto delle fasce più deboli del popolo italiano. Pensiamo che essa colpirà, senza distinzione, le cittadine e i cittadini meno abbienti, con minore capacità economica di ogni parte del Paese, ovunque risiedano, dal momento che essa sottende – come ad esempio dimostrano perfettamente i sistemi sanitari lombardo e laziale, privatizzati per il 50%dal 2001 ad oggi- la ricerca di profitto e dunque la privatizzazione, che escluderà proprio i più bisognosi dall’esigibilità dei diritti universali.

Così come, prevedendo l’affiancamento al contratto collettivo nazionale di contratti regionali – e dunque parti diverse tra eguali – l’autonomia differenziata costituisce un attacco alle conquiste e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il primo comma dell’art 33 della Costituzione – “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, un principio-guida per costruire l’interesse generale – sarà definitivamente cancellato nella pratica da 20 uffici scolastici regionali, che recluteranno il personale e ne pianificheranno la formazione. Ingerendo sul processo di valutazione; sui percorsi di PCTO; su come, perché e cosa si debba insegnare – dando addirittura la prevalenza allo studio della storia e della lingua della propria Regione- contravvenendo così anche al secondo comma dell’art. 33: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione”.

E ancora, gli USR si occuperanno della parificazione degli istituti scolastici, con buona pace del principio di laicità e gratuità e del c. 1 dell’art. 34: “La scuola è aperta a tutti”.

Non possiamo altresì ignorare che la situazione del Paese registri squilibri tali che già denunciano il mancato rispetto delle disposizioni degli artt. 2 e 3 della Carta. Oggi un bambino nato nel 2021 in provincia di Bolzano ha un’aspettativa di vita in buona salute di 67,2 anni. Mentre uno nato in Calabria di 54,2 anni. Un gap di ben 12 anni. E tra le bambine del sud il divario aumenta ancora di più, con una differenza di 15 anni, secondo quanto rilevato dalla XIII edizione dell’Atlante dell’Infanzia (a rischio) 2022, dal titolo “Come stai?” di Save the Children.

Lino Patruno, commentando i dati Istat di gennaio, scrisse: “Se sei un bambino di Crotone corri un rischio doppio di morire nel primo anno di vita rispetto a uno di Pavia. Se sei un vecchio di Potenza non puoi essere curato come uno di Padova e muori tre anni prima. Se sei di Alessandria hai l’assistenza domiciliare e a Campobasso no. Se vai a scuola a Caserta hai un insegnante ogni venti alunni e a Modena uno ogni dieci. Se sei l’università di Foggia ti danno meno fondi di quella di Bologna. Se sei un lavoratore di Cosenza ti pagano meno di uno di Verona. Se stai a Torino hai un treno ad alta velocità ogni venti minuti con Milano e fra Bari e Napoli nessuno”.

Dati Svimez ci informano, poi, che un bambino o una bambina del Sud usufruisce di un anno in meno di scuola rispetto ad uno/a residente in regioni diverse.

Pensiamo che parte della responsabilità di tale situazione sia stata della riforma del Titolo V che ha fornito, proprio a causa dell’incoerenza con quei principi fondamentali, un surplus di impegno a carico della Corte Costituzionale per risolvere i contenziosi.

La determinazione dei Lep, livelli ESSENZIALI delle prestazioni, diventa oggi – nella ratio sottesa al ddl 615 e dopo ben 22 anni di inattività rispetto a quanto disposto a tal proposito nel c. 2 dell’art. 117, ovvero che si tratti di una potestà legislativa esclusiva dello Stato – una risposta frettolosa e assolutamente inadeguata, dato che si prevede l’invarianza delle risorse, per cui questi livelli non potranno neppure essere “essenziali”, ma solo “MINIMI”, al di sopra dei quali potranno ergersi solo le Regioni più ricche.Questo per noi – ma dovrebbe esserlo anche per voi che rappresentate tutte e tuttile cittadine e i cittadini – è inaccettabile. Inaccettabile per diversi motivi: primo tra tutti, “essenziali” è una definizione sottoposta all’arbitrio di chi la interpreta: chi decide cosa è essenziale? E ancora: tra il determinare in tal modo i Lep (che peraltro non vuol dire renderli concretamente operativi) e la istituzionalizzazione delle diseguaglianze esistenti il passo è brevissimo. Per noi i livelli essenziali delle prestazioni devono corrispondere a livelli UNIFORMI, uguali per tutti, come previsto dal c. 2 dell’art. 3, nel senso che tutti debbono poter fruire di quanto loro necessita per garantire il pieno sviluppo della loro persona umana. Detto altrimenti, per garantire l’eguaglianza delle persone occorrono azioni positive differenziate che tengano conto della diversità degli individui, in quanto, è ciò che sostiene il prof. Luigi Ferrajoli, ‘siamo uguali come persone ma diversi come individui’. Per questo anche il concetto dei LEP va interpretato sempre alla luce del’art. 3, 2 comma, della Costituzione.

La questione meridionale – ancora straordinariamente attuale – per anni è stata disconosciuta, al punto che la parola Mezzogiorno è stata cancellata dalla Costituzione (compariva nel c. 3 dell’art. 119 prima della Rif Tit V). Il Sud peninsulare (considerando i recenti provvedimenti sull’insularità in Costituzione) non viene più nominato in Costituzione. Per questo ai Comitati è parsa incomprensibile la scelta fatta dal Parlamento della XVIII Legislatura di reintrodurre in Costituzione il riferimento alle Isole, già contenuto nel testo del 1948, lasciando solo il Sud peninsulare senza ‘copertura costituzionale’, una dimenticanza che andrebbe sanata e che, ci auguriamo, questo Parlamento voglia sanare ripristinando integralmente il testo del 1948. Questo così recitava: ‘Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali’. Questo comma dell’articolo 119 della Carta del 1948 esprime in modo compiuto il regionalismo cooperativo che i Comitati propugnano. Infatti lo Stato deve farsi carico di eventuali ‘scopi particolari’ di ogni Regione, senza dimenticare che il Mezzogiorno e le Isole hanno necessità per un’intera fase storica di essere sostenuti non con l’assistenzialismo, ma con interventi mirati a valorizzare le loro risorse naturali e le loro energie sociali.

Se il ddl 615 dovesse mai giungere all’approvazione, le donne – dai servizi sociali, agli asili nido – saranno le sue prime vittime, dato che esso è un vero e proprio sovvertimento dell’uguaglianza dei diritti, mai peraltro realizzata a causa della mancata attuazione della stessa Carta.

Il ministro Salvini parla della prima pietra del ponte sullo Stretto; ma forse non ha mai fatto un viaggio in treno per raggiungere Reggio Calabria e persino Bari.

E, a proposito di “viaggi della speranza” – quelli che molte cittadine e cittadini del Sud (sempre che possano permetterselo…) sono costretti a fare per curarsi al Nord – richiamiamo alcuni dati: la regione Calabria devolve 77 milioni annui agli ospedali convenzionati accreditati privati della Lombardia: un diritto riservato solo a coloro che hanno la possibilità di esercitarlo. Negli ultimi 10 anni le Regioni meridionali hanno versato 14 miliardi a poche regioni settentrionali. Non solo. Diversi medici di grandi ospedali del Nord si recano al Sud presso ambulatori privati e qui visitano e arruolano pazienti che vengono poi operati nelle regioni del Nord, soprattutto Lombardia, Veneto, Emilia.

Il ministro Calderoli afferma che il finanziamento delle autonomie differenziate avverrà attraverso la compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale. Consideriamo anche solo l’Irpef, per vedere quali sarebbero le conseguenze: poichéil 40% di questo gettito deriva da Veneto (41,2 miliardi), Lombardia (106,3 miliardi) ed Emilia Romagna (43 miliardi), ciò significherebbe che 190,5 miliardi uscirebbero dal bilancio dello Stato nazionale per entrare in quello di queste sole tre regioni. Il doppio all’opposto di quello che invece sarebbe necessario, visto che lo Svimez indica la necessità di almeno 100 miliardi annui per perequare le attuali differenze tra Sud e Nord.

Dunque, nessuna perequazione sarà possibile; al contrario aumenterà a dismisura la sperequazione.

L’affossamento definitivo del Sud provocherà delle inevitabili ripercussioni sul Nord, naturalmente ai danni dei soggetti più deboli, cui verrà progressivamente erosa l’esigibilità di diritti universali, come la salute e l’istruzione, ma non solo. E la frammentazione del Paese moltiplicherà particolarismi che si riverbereranno anche nelle regioni del Nord, in un pericolosissimo conflitto tra chi è più avvantaggiato e chi è meno avvantaggiato.

Di fronte ai drammatici mutamenti climatici, con le conseguenze devastanti della siccità e delle alluvioni, si può pensare di ‘far da soli’ per sanare i danni e intraprendere finalmente una politica di recupero e messa in sicurezza del territorio, consapevoli che fiumi e torrenti non conoscono i confini regionali? Si pensa di poter attuare la transizione energetica attraverso la differenziazione tra i territori o integrandoli in una rete che poggi sulle fonti rinnovabili, attivabili soprattutto nel Mezzogiorno, o si pensa di imporre alle regioni meridionali solo nuove servitù con i gasdotti? Si pensa di potere contrastare le epidemie, come il COVID, frammentando le capacità operative del sistema sanitario, oppure occorre ricostruire un sistema della sanità e della prevenzione pubblici a livello nazionale, con competenze decentrate ma integrate tra loro? A questi interrogativi il ddl 615 non dà risposte, e non può darle perché si muove in direzione opposta, per questo speriamo che non venga approvato dal Parlamento, per costruire invece un sistema istituzionale fondato sulla cooperazione tra i diversi livelli di governo e sulla solidarietà tra i diversi territori e tra le persone che li abitano.

Ė inaccettabile anche il fatto che questa, che si annuncia come una gigantesca (contro)riforma dello stato sociale del Paese, venga attuata da una “cabina di regia” di nomina governativa (ad onta di quanto previsto nel c. 2 dell’art. 117 della Costituzione), espropriando totalmente il Parlamento delle sue prerogative.

Infine un simile provvedimento dovrebbe, in un Paese che voglia dirsi democratico e considerate le peculiarità del territorio, essere frutto di una approfondita consultazione con Comuni, associazioni, sindacati; mentre il ddl 615 e la legge di Bilancio (l. 197/2022) prevedono una concentrazione di tutto il potere decisionale nelle mani del presidente del Consiglio, che – attraverso lo strumento del DPCM – configurerà non solo un vero vulnus ai danni della rappresentanza politica parlamentare, ma anche alle esigenze reali e concrete dei cittadini e dei territori.

Ringraziamo per averci dato in questa sede la possibilità di esprimere le nostre ragioni, nella speranza che possano apportare riflessioni, dubbi, ripensamenti rispetto ad un progetto di divisione della Repubblica e di frantumazione dei diritti dei suoi cittadini, differenziati sulla base del loro certificato di residenza.

 

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