L’Italia a rischio salute

L’approvazione da parte del Senato del disegno di legge n. 615 sull’Autonomia regionale differenziata (per comodità DDL Calderoli), è stata un giorno nero per il Servizio Sanitario Nazionale, per la salute e per la Repubblica. Non sarà l’ultimo, rebus sic stantibus. Il Governo Meloni e la sua maggioranza stanno procedendo nell’iter parlamentare dell’Autonomia, nonostante la contrarietà di oltre il 60% dell’opinione pubblica.

La sanità pubblica (il SSN) in Italia è già differenziata per regioni. Il fallimento di tale differenziazione è evidente ed è da irresponsabili accentuarlo. Lo dimostrano dati consolidati assistenziali e gestionali. Nel 2018 il tasso standardizzato di mortalità evitabile per 100.000 abitanti, indicatore di qualità ed efficacia dell’assistenza, ha oscillato dal 14,8%, in Trentino-Alto Adige al 20,8% in Campania. Nel 2019 l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (i LEP) in Sanità, obbligatori per tutti i Servizi Sanitari Regionali, ha oscillato dal 93,4% in Emilia-Romagna al 56,3 in Sardegna. Nel 2022 l’efficienza operativa misurata da indicatori combinati dal CREA Sanità di Torvergata ha oscillato dal 59% del Veneto al 30% della Calabria. Nel 2020 la spesa sanitaria pubblica pro capite ha oscillato tra i 2.715 euro della Valle d’Aosta e i 1.942 euro della Campania, con una differenza di 773 euro pro capite. Significativo anche il fatto che la spesa privata contemporaneamente è andata dai 987 euro pro capite in Valle d’Aosta ai 406 euro in Campania, con una differenza di 581 euro.

Anche l’organizzazione del SSN nelle varie regioni è diversa. Il caso più importante, perché anticipatore ed emblematico della realizzazione del mercato della assistenza sanitaria in Italia perseguito dalle politiche e dai partiti neoliberisti, è la Lombardia. Essa, infatti, è dotata di Aziende sociosanitarie territoriali (ASST), erogatrici esclusivamente di prestazioni in competizione con le aziende private, e di Agenzie di tutela della salute (ATS), esclusive titolari delle convenzioni/contratti di fornitura con erogatori pubblici e privati. Palese il contrasto con la legge n. 833/1978 di questa organizzazione della sanità pubblica imposto da Formigoni con la legge regionale n. 33/2009 e rinnovato dalla legge regionale n. 22/2021), colpevolmente accettato senza opposizione dal governo Draghi-Speranza.

A partire dalla centralizzazione delle funzioni di acquisto e/o degli ambiti territoriali di assistenza e senza enumerarne tutte le tipologie, si può constatare che non c’è una regione che abbia un’organizzazione sanitaria uguale a quella di un’altra. Gli stessi professionisti dipendenti sono “rinchiusi” in “gabbie salariali” con remunerazioni differenti tra regioni e tra aziende sanitarie. Nel corso degli anni, infatti, il “monte salari” è andato differenziandosi tra i Servizi sanitari regionali, e al loro interno tra le aziende, per il susseguirsi, contratto dopo contratto sino a quello del comparto dello scorso anno, degli incrementi in percentuale sullo storico e non “per quota capitaria”, oltre al diverso ricorso all’istituto delle “compartecipazioni”. A ciò si aggiungano i cosiddetti “piani di rientro”, cioè il blocco forzato di tutte le spese in caso di disavanzo pari al 7% rispetto agli obbiettivi di finanza pubblica stabiliti in base al “Patto di stabilità e crescita europeo”, istituito nel 1997.

Con il DDL Calderoli la maggioranza e il Governo Meloni, però, hanno iniziato la trasformazione delle attuali mere differenze di efficienza amministrativa dell’articolazione regionale del SSN in sanità, in calamità sociale per i cittadini. In tutte le regioni, non solo nel Sud, anche nel Centro e nel Nord. Le regioni, tutte, sia ordinarie che autonome, diventeranno “agenti regionali” dello smantellamento del SSN e della progressiva privatizzazione e finanziarizzazione della sanità in Italia. Una via regionale decentrata e autonoma al neoliberismo, insomma, tramite la balcanizzazione eversiva della Repubblica e delle sue articolazioni amministrative regionali.

Ne soffriranno in primo luogo coloro, lavoratori e professionisti dipendenti e no, che in tutte le regioni, senza distinzione tra Nord, Centro e Sud, non sono nelle fasce altissime di reddito, e dovranno rinunciare alle cure o agli alti costi, in incremento di anno in anno, delle polizze assicurative e/o accessi alle cure a pagamento diretto (out of pocket). Lo conferma il combinato disposto della legge di Bilancio 2024, del DDL Calderoli e del decreto Milleproroghe 2024

La legge di Bilancio 2024 ha stanziato per il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) circa 131 miliardi di euro, 10 in meno rispetto ai 141 miliardi stimabili senza incrementi sul 2022 se non quelli per l’inflazione cumulativa, che è stata del 9%. Nel 2014, a prescindere dalla entità dell’inflazione che si registrerà a fine anno, il FSN, sarà, quindi, ancor più insufficiente a finanziare il SSN. E la frammentazione in 19 Servizi Sanitari Regionali (SSR) più 2 Provinciali non servirà a risolvere questo problema, neanche per le regioni del Nord. Il DDL Calderoli è chiaro: i LEA/LEP, sono finanziati nei «limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio» (art. 4) e sono esclusi «nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (art. 9). Devoluzione o no, a dover tagliare i servizi pubblici e a privatizzarli saranno le Regioni e anche i Comuni, che sul piano politico, in qualsiasi caso, e talora anche su quello istituzionale (Conferenze Socio-Sanitarie Territoriali), sono coinvolti nella programmazione dei servizi sanitari. Il decreto Milleproroghe 2024, infine, non ritarderà la devoluzione in sanità sia perché i LEA sono già in vigore col DPCM del 2017, che li ha aggiornati, sia perché il DM 23 gennaio 2023 sulle tariffe è in vigore dal 24 gennaio 2001, sia perché il FSN, di fatto, li finanzia, anche se assai al di sotto delle necessità.

Non appena il DDL Calderoli sarà legge con l’approvazione alla Camera, per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna si ripartirà dalle pre-intese del 2018 e 2019 (art. 11) e la competenza per la Sanità è stata richiesta in forma praticamente eguale da tutte e tre. Dallo stesso momento, inoltre, le tre regioni potrebbero ottenere l’autonomia nelle nove materie non vincolate ai LEP. Tra queste c’è la materia “professioni”, che in Sanità significa ambito ordinistico di medici e delle altre professioni. Alle restanti regioni non rimarrà che adeguarsi o accendere conflitti politico amministrativi con lo Stato e/o tra loro stesse.

Col DDL Calderoli l’attacco alla salute sarà ben più esteso di quello diretto e specifico al solo SSN, poiché la “tutela della salute” si persegue in primo luogo adottando la prevenzione primaria come criterio guida vincolante in tutte le politiche, quindi in tutte le altre materie da devolvere. Una a caso, l’ambiente! Ma a ben vedere, direttamente o no, anche tutte le altre. Di qui la logica necessità di opporsi all’Autonomia differenziata in toto, di non limitarsi solo a chiedere che la Sanità ne sia estrapolata.

L’attuazione dell’autonomia differenziata, collegata al premierato, è in pieno svolgimento. Governo e Parlamento non sentono ragioni. L’opposizione delle forze politiche, sociali e di gran parte dell’associazionismo è senza risultati: sembra assai ridotta la percezione/cognizione della gravità eversiva del processo politico di democratura in atto, da cui l’assenza di convinzione e di incisivi atti politici. Di qui la necessità di rilanciare lotte sindacali e sociali, di chiedere alle Regioni di avanzare alla Corte costituzionale i ricorsi del caso e, soprattutto, di andare, al momento opportuno, a un referendum.

L’Italia a rischio salute

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