Astensionismo, le ragioni di chi non si sente rappresentato e sceglie di non votare

La professoressa di Filosofia politica all’Università di Torino Valentina Pazè spiega perché metà della popolazione decide di non recarsi alle urne. “Proprio chi da poco ha acquisito il diritto di voto oggi non lo ritiene uno strumento di emancipazione collettiva”

10 aprile 2024 Toni Castellano redattore lavialibera

Alle recenti elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna non hanno votato circa il 50 per cento dei cittadini. Un dato che non stupisce, perché il trend va avanti da tempo. Alle amministrative del 2021, ad esempio, si era registrata la stessa percentuale. Abbiamo chiesto di analizzare la questione a Valentina Pazè, professoressa di Filosofia politica all’Università di Torino e autrice del saggio I non rappresentati (Edizioni Gruppo Abele).

“Quello che più colpisce – spiega la professoressa – è l’estrazione sociale degli astenuti. Nel 2021 gli elettori a basso reddito e basso livello di istruzione erano proprio quelli che avevano disertato il voto: poco più di uno su quattro era andato alle urne mentre tra gli elettori benestanti l’80 per cento aveva votato. Questo dato ci dice qualcosa di sorprendente e paradossale: proprio coloro che da poco hanno acquisito il diritto di voto oggi non ritengono il voto uno strumento di emancipazione collettiva e quindi si astengono”.

Chi sono gli “esclusi di diritto” e gli “esclusi di fatto”?
Un tempo gli esclusi sul piano formale erano i poveri, bollati come pericolosi, oppure le donne, ritenute non capaci di intendere e volere. Oggi sono i concittadini stranieri, le persone immigrate che vivono nel nostro Paese, lavorano e pagano le tasse ma non hanno diritti politici. È un’esclusione grave, che contraddice il principio fondamentale della democrazia, secondo cui tutti coloro che sono tenuti a obbedire alle leggi dovrebbero poter contribuire a fare le leggi. Gli esclusi di fatto, invece, sono persone titolari dei diritti politici che possono votare e candidarsi, ma esprimono un voto che non influisce a eleggere un loro rappresentante nelle istituzioni. L’esempio più immediato è quello delle leggi regionali con premi di maggioranza e soglie di sbarramento.

Ci sono poi gli autoesclusi. A chi giova il non voto?
Gli autoesclusi sono la terza categoria di non rappresentati, che deliberatamente si astengono dal partecipare e dal votare. Di recente in Cile il referendum che avrebbe dovuto sancire la definitiva archiviazione della brutta Costituzione di Pinochet prevedeva l’obbligo del voto, con una multa anche piuttosto consistente per i disertori. A votare è andato più dell’80 per cento delle persone e la riforma è stata bocciata. Questo dimostra che forse il problema dell’astensionismo non si risolve con mezzi coercitivi e sanzionatori. Tornando alle nostre latitudini, si pensi alle persone di ceto sociale basso che vivono in aree periferiche, meno istruite, che covano sentimenti di disinteresse verso la politica quando non direttamente di abbandono. Loro non votano perché sono convinte dell’inutilità del gesto, oppure per protesta o ancora perché non aderiscono a nessun programma politico, visto che nessun partito si occupa delle diseguaglianze del Paese. Di sicuro, se esistesse un partito astensionista oggi vincerebbe le elezioni a mani basse.

Nel suo libro scrive di “finzione della rappresentanza”. Che significa?
É un concetto introdotto da Hans Kelsen, che si riferiva alla concezione della rappresentanza di fine Settecento. Sosteneva che l’idea che una singola persona, un deputato o un premier, un “presidente eletto” come si dice oggi, possa rappresentare interamente il popolo o la nazione, è una finzione, un’illusione metafisica, proprio perché popolo e nazione sono entità astratte. A essere concrete sono le persone, i cittadini, non solo in quanto singoli ma in quanto associati in gruppi, movimenti, associazioni e partiti, spesso tra loro in conflitto. Insomma, il popolo della democrazia non è un popolo omogeneo. Quello è il popolo del populismo. Sono i populisti che evocano il popolo come se fosse un unico soggetto collettivo, e invitano il popolo a identificarsi in un singolo leader.

Di recente il governo ha prospettato la necessità di un premierato. È la soluzione giusta?
Il premierato prevede l’elezione diretta del capo del governo, ma diversamente da quanto accade in altri sistemi presidenziali contestualmente all’elezione del parlamento, la lista collegata al candidato o candidata premier avrebbe un premio di maggioranza del 55 per cento. Ci sarebbe quindi una maggioranza gonfiata, blindata al servizio del capo del governo e questo va contro la democrazia. La riforma per un verso depotenzia le istituzioni di garanzia, tra cui la presidenza della Repubblica, perché quella maggioranza gonfiata vanifica le previsioni costituzionali di maggioranze qualificate per eleggere i vari organi di garanzia. Per altro verso, esautora ulteriormente il parlamento, perché quando il presidente della Repubblica dà l’incarico di formare un governo non esercita un potere arbitrario ma prende atto di quelli che sono gli equilibri parlamentari. La vera vittima della riforma sarebbe quindi il parlamento, già ridotto a un organo che ratifica il volere dell’esecutivo. Il potere dei cittadini non è eleggere una persona con una carica monocratica, non sarebbe rappresentativa della complessità della società se non in una visione identitaria della democrazia che è quella fascista: “Duce, sei tutti noi” urlavano nel Ventennio.

Intanto, tra le fasce più giovani della popolazione c’è chi si batte a difesa dell’ambiente. Come interpreta questo sentimento?
Sulla questione i giovani sono più sensibili rispetto alle generazioni mature. Dal punto di vista teorico ci sono due strade possibili. Una è quella che hanno intrapreso una serie di movimenti di attivisti, che chiedono di conferire personalità giuridica a entità non umane come gli animali, le montagne, i fiumi e i laghi. In Spagna nel 2023, è stata riconosciuta personalità giuridica a una laguna del Mar Menor nella Murcia, individuando un gruppo di scienziati e ambientalisti con il compito di rappresentare gli interessi del sito. Altre strade sono possibili. Luigi Ferrajoli nella sua Costituzione della Terra invita a riflettere sui beni comuni e a dar vita a un demanio planetario. Si tratterebbe di mettere fuori mercato i beni naturali perché oggi è il mercato, il capitalismo, la minaccia più forte per la sopravvivenza del pianeta. Sul piano politico queste proposte camminano sulle gambe delle persone e dei cittadini che si associano in movimenti e ingaggiano delle battaglie per il bene comune. L’auspicio è che [CONTINUA A LEGGERE SU LAVIALIBERA]

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