di Francesco Gesualdi
E’ possibile combattere la miseria senza combattere i meccanismi che la producono? La domanda è retorica: non esiste altra risposta che no. Eppure è ciò che facciamo se non affrontiamo il tema del debito pubblico. A onor del vero, va detto che il debito pubblico è come il colesterolo. C’è quello buono che rappresenta ricchezza e quello cattivo che rappresenta miseria. Il debito è buono quando la moneta è gestita direttamente dallo stato in un’ottica di piena occupazione. In tale contesto la spesa in deficit si trasforma in ricchezza perché l’ammanco è finanziato con moneta stampata di fresco che entrando nel circuito economico stimola l’economia a crescere con effetti positivi su produzione, occupazione, consumi e risparmi. Il debito è cattivo quando lo stato si priva volutamente di sovranità monetaria, ossia del potere di stampare moneta. In tal caso ogni volta che decide di spendere più di quanto incassa deve chiedere un prestito al sistema finanziario privato. Che lo darà solo in cambio di un tasso di interesse. Così il popolo si impoverisce a vantaggio di banche, assicurazioni, fondi di investimento e ogni altra struttura finanziaria che di mestiere presta denaro. Purtroppo da una trentina di anni, già prima di entrare nell’euro, lo stato italiano si è ridotto al pari di una qualsiasi famiglia o azienda che dipende dalle banche per qualsiasi spesa supplementare. Il suo debito nei confronti dei privati oggi ha raggiunto 2200 miliardi di euro e si comporta come una zecca che affonda l’arpione nelle casse pubbliche per sottrarre denaro in base al livello dei tassi di interesse esistenti. Nel 2016 i soldi sottratti sono stati 68 miliardi di euro, nel 2012 addirittura 87 per un semplice capriccio della speculazione. Soldi di tutti, che invece di andare a finanziare asili, ospedali, scuole al servizio della collettività, vanno ad ingrassare gli azionisti delle strutture finanziarie. In effetti solo il 5% del debito pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto Il resto è nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, di cui 65% italiani e 35% esteri. Si può senz’altro affermare che il debito cattivo è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi. Perché solo i ricchi hanno risparmi da investire in titoli di stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da società a uovo si sta trasformando in società a piramide. Prima c’era un piccolo numero di famiglie con redditi bassi, un piccolo numero con redditi molto alti e nel mezzo un gran numero di famiglie con redditi medi. Oggi molte famiglie di mezzo stanno migrando verso il basso mentre quelle di cima sono sempre più esigue e naturalmente più ricche. Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, depositi, le famiglie italiane possono essere divise in tre fasce. Quella di cima, che accoglie appena il 10%, detiene il 46% dell’intera ricchezza privata. Quella di mezzo, equivalente al 40% delle famiglie, controlla il 44% della ricchezza. Quella di fondo, pur essendo la più ampia, pari al 50% delle famiglie, si aggiudica appena il 9,4% della ricchezza. Mediamente la ricchezza delle famiglie appartenenti al 10% più ricco è 22 volte più alta di quelle appartenenti al 50% più povero. Ma se possibile la realtà è anche peggiore. Uno studio del Censis certifica che i 10 individui più ricchi d’Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani appartenenti al club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro e non è conteggiato il valore degli immobili. In altre parole lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella detenuta dal 4,5%.
I segni di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Il 10% più ricco della popolazione intasca il 25,3% del reddito disponibile, il 10% più povero solo il 2,1%. In termini monetari ogni individuo del 10% più ricco dispone di 77.189 euro all’anno. Quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro. Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore di metà degli anni ottanta quando il rapporto era 8 a 1.
Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il debito aggrava tramite l’austerità, scelta classica di uno stato totalmente asservito alle banche. Al pari di una famiglia, quando uno stato senza sovranità monetaria si accorge di non avere abbastanza soldi per pagare interessi e capitale, cerca di raggranellare il dovuto aumentando le entrate e riducendo le spese. Due mosse che hanno ambedue conseguenze gravissime perché se lo stato smette di offrire servizi, le famiglie debbono rivolgersi al mercato che nel frattempo si è impossessato di servizi primari come l’acqua, i trasporti, la scuola, la sanità. Con la differenza che prima erano gratuiti, mentre ora sono a pagamento. Così le famiglie italiane già tartassate dal carico fiscale sono sempre più salassate dalle imprese private per il godimento di bisogni fondamentali. Basti dire che in ambito sanitario la spesa privata è salita, anno 2015, a 34,5 miliardi di euro, il 3,2% in più rispetto al 2013. In totale gli italiani che si rivolgono alla sanità privata, spinti da ticket sempre più alti e da liste di attesa sempre più lunghe, sono oltre 10 milioni. Ma contemporaneamente sono cresciuti anche quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di cura perché non hanno soldi né per pagare i ticket, né le parcelle. Nel 2016 gli italiani rinunciatari sono stati 11 milioni confermando che lo spostamento dalla sanità pubblica alla sanità privata si accompagna alla sanità negata.
Che il binomio più tasse, meno servizi, impoverisca gli italiani, lo dicono i numeri. La forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le bollette, di chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non può permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni. Le persone in questo grave stato di deprivazione materiale sono 7 milioni, 11,6% della popolazione. Ma se allarghiamo lo sguardo a chi vive in bilico a causa del suo stato di precarietà e incertezza, troviamo che le persone a rischio povertà o esclusione sociale sono 17 milioni e mezzo, il 28,7% della popolazione italiana, il 3% in più del 2004. Persone a cui basta un dente da riparare, una batteria di esami eccezionale da fare, una riparazione d’auto fuori programma, per mandarli sott’acqua e costringerli ad arrangiarsi chiedendo un prestito o rinunciando ad altre spese importanti.
L’assurdo della situazione è che ora neanche i creditori sono più così sicuri di voler spingere lo stato debitore a pagare. La loro paura è di finire come quei bombaroli che non avendo calcolato bene la lunghezza della miccia sono colpiti anche loro dalla deflagrazione.
Fuori di metafora, la paura è che a forza di estrarre ricchezza, il sistema possa impoverirsi a tal punto da entrare in una spirale di crisi che trascina tutti verso il fondo. Il punto delicato è la domanda, perché viviamo in un sistema che si regge sulle vendite. Solo se c’è un livello di domanda pari, o addirittura superiore, alla capacità produttiva, tutto funziona regolarmente e possono addirittura aprirsi prospettive di crescita come tutti invocano. Se invece la domanda si contrae, le imprese entrano in crisi e licenziano in una spirale sempre più ampia. Esattamente come succede nelle economie ad alto debito pubblico, dove i cittadini hanno meno soldi da spendere a causa dell’elevato livello di tassazione e lo stato stesso spende meno per risparmiare risorse da destinare agli interessi. Tanto più che neanche i ricchi aiutano. Benché con più soldi, in virtù degli interessi intascati, la loro spesa non cresce. Non spendono in consumi perché tutti i loro bisogni sono già stati soddisfatti e non spendono in investimenti perché non sono così stupidi da avviare nuove attività produttive quando non ci sono prospettive di vendita. L’unica strada che imboccano è quella della finanza che si espande sempre di più.
Negli ultimi 10 anni, complice la crisi bancaria, l’austerità e la concentrazione della ricchezza, in Italia la domanda complessiva si è ridotta ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle. Nel 2016 i disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7% della forza lavoro. Ma il dato si riferisce solo a chi cerca attivamente lavoro. Se si includesse nel conteggio anche quelli che un lavoro salariato lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati, il numero dei disoccupati salirebbe a 5 milioni e mezzo, il 21,6% della forza lavoro. Purtroppo anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema dal momento che fra il 2013 e il 2016, ha perso 84mila unità.
La disoccupazione colpisce in maniera particolare i giovani fra 15 e 29 anni. Nel 2016 i giovani disoccupati sono 960mila pari al 44%.della forza lavoro giovanile. In pratica ogni 10 giovani disposti a lavorare, 4 non lo trovano. Ed ecco la crescita dei Neet, giovani stanchi e sfiduciati che né lavorano né studiano secondo la definizione inglese Not in education or in employment training. Nel 2016 i giovani nullafacenti fra i 15 e i 29 anni ammontano a più di 2 milioni, il 24% del totale.
Da oltre trent’anni, ogni governo dichiara di porsi come priorità l’abbattimento del debito, ma se ne va lasciandosi dietro un debito ancora più alto. E non perché viviamo al di sopra delle nostre possibilità, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma perché non ce la facciamo a tenere la corsa con gli interessi. L’esame dei bilanci pubblici dimostra che siamo dei risparmiatori, non degli scialacquatori. Ad esempio nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro perché a tanto ammonta la differenza, in negativo, fra ciò che abbiamo versato allo stato e ciò che abbiamo ricevuto indietro sotto forma di servizi, investimenti, previdenza sociale. Ciò nonostante nel 2016 il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio accumulato non è stato sufficiente a coprire tutta la spesa per interessi. Questa storia si ripete dal 1992 e ciò spiega perché da allora il nostro debito è passato da 850 a 2218 miliardi di euro nonostante 768 miliardi di risparmi. E’ semplicemente successo che su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a debito.
Il debito che si autoalimenta attraverso la via degli interessi è una delle forme più odiose di dominio e strangolamento di un popolo. Ogni anno avvolge attorno al suo collo un nuovo giro di catena per tenerlo sempre più stretto e succhiargli sempre più sangue. Fuori di metafora è un’organizzazione perfetta di latrocinio per travasare quote crescenti di ricchezza collettiva dalle tasche dei cittadini a quelle dei ricchi. Ma ora è arrivato il tempo di alzarci in piedi e rivendicare il diritto di sottrarci a questo meccanismo perverso. Gli strumenti per farlo ci sono: vanno dal congelamento del pagamento degli interessi, al ripudio del debito illegittimo, dall’imposizione ai più ricchi di un prestito forzoso ad una tassazione progressiva di reddito e patrimonio, dall’introduzione di una moneta complementare nazionale alla riforma della Banca Centrale Europea, dal controllo della fuga di capitali alla regolamentazione della speculazione sui titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la volontà politica. Neanche i politici più progressisti hanno messo a fuoco la gravità della situazione ed hanno posto al centro del proprio programma politico la gestione alternativa del debito.
Per questo è urgente che si muova la società civile, con un primo obiettivo minimo: organizzare una grande campagna di informazione pubblica orientata a tre scopi: creare consapevolezza nei cittadini sui nessi esistenti fra debito pubblico e disagio sociale; obbligare i media ad accendere i riflettori sul debito e sulle soluzioni alternative; forzare i politici a concentrarsi sul problema affinché diventi il principale argomento di dibattito pubblico.
La storia ci insegna che i cambiamenti sono possibili, ma solo se si infervorano gli animi. E gli animi si infervorano se scatta l’indignazione che deriva dalla consapevolezza. Nessuno meglio di noi può assumersi il compito di fare sapere. Possiamo e dobbiamo farlo. Ma dobbiamo unire le forze.