Roberto Romano 16 Aprile 2019
Il Def cerca di far crescere, tramite il reddito di cittadinanza, il PIL potenziale di almeno 11 miliardi. Ma si tratta di misure una tantum che non riducono il rapporto debito-Pil e quindi la possibilità di allagare le maglie del bilancio pubblico per nuovi investimenti. Un fallimento per il governo.
Il Documento di Economia e Finanza 2019 (DEF) del governo Conte è sospeso tra prospetti tendenziali-programmatici dei conti pubblici, e prospettive di cambiamento delle politiche economiche europee. Una sospensione più che giustificata. Le prossime elezioni europee non sono un appuntamento più o meno ricorrente, piuttosto un appuntamento con la Storia.
Da un lato abbiamo un Fiscal Compact scaduto e bocciato dal Parlamento europeo (27 novembre 2018), dall’altra ci sono i vincoli finanziari reclamati dalla Commissione senza una adeguata copertura giuridica. In altri termini, i vincoli del Fiscal Compact non sono diritto comunitario, ma continuano ad essere esercitati pur in assenza di una normativa europea coerente.
Utilizzando le categorie delle cosiddette istituzioni del capitale “informali e formali”, le consuetudini e il senso comune (istituzioni informali) hanno sopravanzato le regole sancite dalle istituzioni formali del capitale. Più precisamente: i vincoli di bilancio sono diventati senso (struttura) comune delle policy europee e degli Stati aderenti, indipendentemente dalla struttura giuridica dei trattati.
Il DEF è lo specchio fedele di questa incertezza, a cui si aggiunge uno scenario economico incerto che interessa un po’ tutti gli Stati dell’area euro. La caduta del PIL non è un fenomeno imputabile alle politiche del governo in carica, piuttosto alla guerra valutaria e commerciale internazionale, alla incertezza relativa alla Brexit, con tutte le implicazioni dal lato del mercato finanziario, e alla contrazione della cosiddetta “domanda effettiva europea e internazionale”. Si potevano immaginare dei provvedimenti più coerenti e puntuali nella Legge di Bilancio, oppure delle policy adeguate per attutire l’impatto della crisi economica nel DEF, sacrificate sull’altare del Reddito di Cittadinanza e Quota cento, ma la minore crescita del PIL sarebbe comunque intervenuta.
Semmai sorprende la resistenza e/o aspettative del governo circa gli effetti economici relativi alla riduzione del prelievo fiscale e agli incentivi alle imprese. Sebbene tra precedente governo e quello attuale ci sia una differenza di stile importante, gli obbiettivi sono gli stessi e il risultato finale sarà più o meno identico, con l’aggravante di una finanza internazionale estremamente diffidente rispetto all’attuale compagine governativa.
Più che la crescita del PIL, ridotta allo 0,1% per il 2019 e allo 0,6%, sostanzialmente in linea con il quadro programmatico delineato dal governo (si veda la tabella 1), e il deficit nominale, che pasa del meno 2,4% del 2019 al meno 2,1% del 2020, è significativamente più grave l’invarianza del così detto deficit strutturale, cioè l’indicatore utilizzato dalla Commissione Europea per valutare l’efficacia delle politiche pubbliche degli Stati.
Questo rimane costante tra il meno 1,5% e il meno 1,4% del PIL. Sul punto occorre una seria e puntuale riflessione. Ricordando che il deficit strutturale è il rapporto tra il deficit nominale e il PIL potenziale, il fatto che questo rimanga sostanzialmente invariato contraddice una parte delle politiche del governo e, in particolare, quelle relative al Reddito di Cittadinanza.
Senza discutere sull’opportunità o meno del reddito di cittadinanza, la proposta governativa aveva un pregio: la disoccupazione italiana diventa più credibile perché sussume le persone che avevano rinunciato alla ricerca di un posto di lavoro e non rientravano più nella disoccupazione certificata dall’Istat. Si tratta, in fondo, di una operazione trasparenza con degli effetti economici sul Pil potenziale importante. Se i numeri delle domande relative al Reddito di Cittadinanza sono veri, almeno 470 mila persone rientrerebbero nel mercato del lavoro, con l’effetto di far crescere il PIL potenziale di almeno 11 miliardi di euro (stima Romano). Il così detto output gap, cioè la differenza tra PIL reale e potenziale rimane, purtroppo, molto simile. Si osserva una piccola crescita dello stesso nel 2019 pari a 0,2 punti di PIL, ma troppo poco per immaginare un spazio di finanza pubblica legato alla riduzione del deficit strutturale.
La sostanziale stabilità del deficit strutturale solleva, quindi, più di una perplessità, la quale aumenta se consideriamo l’invarianza (positiva) dell’avanzo primario (il saldo del bilancio pubblico al netto della spesa per interessi). Se aumenta il tasso di partecipazione al lavoro, in ragione della crescita dei potenziali occupati, il PIL potenziale deve necessariamente crescere, almeno per la quota parte relativa ai nuovi potenziali occupati. In altri termini, la crescita della disoccupazione e del tasso di partecipazione dovrebbero manifestare una potenziale crescita strutturale; certamente non utilizzata in ragione della specializzazione industriale nazionale, ma rimane pur sempre un PIL potenziale strutturale a cui far tendere l’intero sistema economico nazionale, e molto utile nei confronti con la Commissione per la validazione dei conti pubblici. Evidentemente questo PIL potenziale non è strutturale, piuttosto una crescita una tantum del PIL, come si può osservare nella tavola 2.
Evidentemente la misura si configura come uno strumento contro la povertà e non uno strumento strutturale per aumentare il tasso di partecipazione che rimane ancorato alle aspettative della domanda (crescita del PIL). Inoltre, l’aumento dei consumi sotteso al Reddito di Cittadinanza, la crescita del tasso di partecipazione e l’aumento degli investimenti, sono realmente una tantum, tanto è vero che le esportazioni non crescono, nel mentre aumentano le importazioni.
Anche Quota cento non ha nessun effetto sulla crescita e sul PIL potenziale (tavola 3); infatti, con quota cento il tasso di partecipazione si riduce di 0,1 punti nel 2019, per arrivare a meno 0,3 negli anni successivi.
Il PIL potenziale poteva diventare un’arma per discutere con l’UE le politiche economiche europee, ma i provvedimenti adottati si configurano come parziali e non strutturali. Non imputo la minore crescita a questo provvedimento o alla Quota cento, ma l’invarianza del PIL potenziale pregiudica la riduzione (stabilizzazione) del rapporto debito-Pil e quindi la possibilità di allagare le maglie del bilancio pubblico per effettuare nuovi investimenti. Questo è il vero fallimento del governo Conte.
Ovviamente le politiche europee cambieranno dopo le elezioni, e probabilmente ci saranno dei miglioramenti nella definizione del deficit pubblico, ma la crescita del PIL potenziale non è un esercizio a buon mercato conseguibile via riduzione del prelievo fiscale e via incentivi alle imprese.
Era difficile prefigurare un DEF diverso da quello uscito dal Governo in termini di saldi nominali, la crisi vale per tutti, ma il fallimento nella crescita del PIL potenziale rende le clausole di salvaguardia (quasi 50 miliardi nel biennio) e le spese improrogabili una muraglia insormontabile a cui la spending review (8 miliardi) e la ridefinizione delle tax expanditure potranno ben poco contribuire.