Il diritto di avere diritti: cancelliamo l’art 5 e le leggi sulla sicurezza

Da maggio 2014 nel nostro paese è in vigore una norma che nega la residenza a chi vive in immobili occupati adibiti ad abitazione.

L’art 5 del c. d. “Decreto Lupi-Renzi” stabilisce, infatti, che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non possa chiedere la residenza né l’allaccio delle utenze. Ciò implica che gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.

Il decreto recante “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, convertito in legge nel maggio 2014 e motivato dalla “necessità di intervenire in via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo che interessa sempre più famiglie impoverite dalla crisi”, invece di produrre nuove politiche abitative pubbliche si è concretamente tradotto nella discriminazione dei più poveri e nella loro criminalizzazione.

L’art 5 comporta in modo diretto l’esclusione da tutti i servizi di welfare locali erogati sulla base della “residenza legale”, l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, di accedere al patrimonio ERP, di iscrizione ai centri per l’impiego, di apertura di una partita I.V.A., di richiesta del patrocinio a spese dello Stato, di ottenere la cittadinanza italiana e carte di soggiorno fondate sulla continuità residenziale.

Nell’ordinamento giuridico italiano, infatti, la concreta esigibilità dei diritti sociali, civili e politici è subordinata all’iscrizione anagrafica. L’impossibilità di accedere alla residenza si traduce, quindi, nella negazione del diritto ad avere diritti, nell’annullamento della dignità che spetta ad ogni persona, nell’invisibilità agli occhi della pubblica amministrazione. Il tutto fondato sulla precisa volontà di punire un bisogno sociale fondamentale (e negato) come la casa, producendo ulteriori disuguaglianze e marginalità.

Senza la residenza non è possibile godere a pieno del diritto alla salute in quanto l’iscrizione anagrafica è condizione per ottenere l’assegnazione di un medico di famiglia e di un pediatra. Oltre alla mancata prevenzione, questo si traduce nel non godimento di cure basilari come nel ricorso al pronto soccorso anche per questioni non emergenziali.

Per quanto riguarda l’iscrizione a scuola, non solo la residenza è condizione dell’accertamento dell’obbligo scolastico ma lo è anche per l’accesso ad alcuni servizi, quali la mensa e il buono libri, subordinati all’ISEE: chi non ha la possibilità di produrre questa certificazione, anch’essa legata a doppio filo alla registrazione anagrafica, ne rimane tagliato fuori pur essendo particolarmente bisognoso di misure di sostegno. Non è inoltre possibile effettuare l’iscrizione alla scuola materna né agli asili nido.

Eppure, secondo i principi generali del nostro ordinamento e secondo la Costituzione, la residenza è un diritto soggettivo del cittadino; l’art. 43 del Codice civile recita con chiarezza che “il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Alla pubblica amministrazione spetta il compito di mero accertamento, ossia la verifica della sussistenza del requisito della dimora abituale. Gli uffici anagrafe dei comuni rispondono, infatti, all’esigenza di monitorare la presenza delle persone che vivono dentro uno spazio statale, consentendo a chi amministra di espletare alcune funzioni, come la redistribuzione delle risorse economiche e la predisposizione dei servizi sociali. Di fatto, l’istituto dell’anagrafe viene invece impiegato come strumento di vera e propria selezione della popolazione meritevole di accedere ai servizi e ai diritti di cittadinanza.Successivamente alla promulgazione e all’implementazione del Piano Casa Renzi-Lupi, con una circolare del Ministero dell’Interno del 18 maggio 2015 è stata riconosciuta la possibilità a chi vive in spazi occupati di ottenere l’iscrizione anagrafica secondo le modalità previste per le persone senza fissa dimora. I comuni hanno quindi adottato la c.d. residenza fittizia. Tuttavia, le procedure impiegate per attuare questo percorso di registrazione sono farraginose e ambigue, anche per effetto di una modifica apportata nel 2009 alla normativa anagrafica dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni: il Pacchetto sicurezza emanato dall’esponente leghista ha introdotto infatti l’obbligo di dimostrare l’effettività del domicilio da parte delle persone che si dichiarano domiciliate e non dimoranti in maniera abituale. Molti comuni, di conseguenza, seppur in maniera del tutto illegittima pretendono che le interessate e gli interessati esibiscano prove del proprio radicamento, come se la condizione di senza fissa dimora dovesse coincidere con una presenza stanziale.

A “certificare” queste prove, peraltro, sono quasi sempre i servizi sociali, o attori del terzo settore che stipulano protocolli con le amministrazioni comunali. Chi fa assistenza si trasforma dunque, esplicitamente, in controllore e garante della “buona condotta” individuale.

Inoltre, le procedure non sono uniformemente interpretate, sia in ambito anagrafico sia in settori – estremamente delicati – a questo collegati, spianando la strada alla discrezionalità degli attori in campo. A Roma, per esempio, la questura non riconosce l’iscrizione secondo il criterio del domicilio quale condizione formale valida per il rinnovo dei permessi di soggiorno, mentre in molte città l’INPS la rifiuta rispetto all’erogazione della misura del Reddito di Cittadinanza.

Le conseguenze per la vita delle persone sono nefaste: la residenza fittizia rappresenta di fatto uno stigma sociale- in molti denunciano la difficoltà a trovare un contratto di lavoro- oltre a spingere molti migranti nell’illegalità costringendoli a pagare per un indirizzo valido al fine di rinnovare i documenti di soggiorno. Lo sviluppo di un vero e proprio “mercato delle residenze” è la conseguenza – (forse) non prevista e chissà se voluta, ma certamente prevedibile – delle restrizioni al diritto all’iscrizione anagrafica.

Con l’approvazione del decreto Salvini del 2018, il divieto di iscrizione all’anagrafe è stato esteso anche ai richiedenti asilo, pur in possesso di un permesso di soggiorno (art 13). È necessario e urgente alzare la voce contro norme ingiuste, che puniscono e discriminano i più bisognosi e che stanno producendo un “esercito di invisibili”.

La cancellazione in via definitiva dell’art 5, una norma ideologica e classista e il ripristino delle prerogative anagrafiche preesistenti rappresenta una battaglia politica, culturale e di civiltà giuridica, nonché una doverosa attenzione ai fenomeni di diseguaglianza sociale che non possono e non devono essere affrontati con l’approccio securitario e di esclusione che si è affermato pericolosamente negli ultimi anni.

Invitiamo dunque insegnanti, medici, amministratori, dirigenti, funzionari e impiegati dei vari uffici anagrafe presenti sul territorio nazionale, assistenti sociali, operatori sanitari e del terzo settore a prendere parola e sostenere con forza la campagna per l’abrogazione dell’art 5 e delle leggi sulla sicurezza.

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