La proposta di una misura di sostegno al reddito che parte dai punti definiti irrinunciabili dal Parlamento e dalla Commissione europea, mettendo al centro la dignità delle persone e il diritto all'esistenza di tutte e tutti.
Negli anni che vanno dal 2012 al 2015, in Italia, due importanti campagne hanno portato al centro del dibattito politico e sociale la necessità di introdurre la proposta (seppur iniziale) di un reddito garantito. Un diritto economico, di contrasto alle nuove povertà, alla precarietà emergente e per rimettere al centro la dignità della persona, nell’epoca della finanziarizzazione e delle politiche di austerità, che hanno colpito pesantemente le misure di welfare.
L’idea di fondo fu quella di definire un nuovo diritto: avere un beneficio economico che rendesse possibile impedire lo scivolamento di ogni persona “sotto una certa soglia economica”. Un principio di base che avrebbe introdotto, in uno dei paesi europei a maggior rischio esclusione sociale e disoccupazione giovanile, una nuova garanzia di dignità della persona, dentro la sfera dei diritti sociali ed economici. Una proposta che rientra all’interno di un forte dibattito internazionale (con sperimentazioni di un reddito di base in numerosi paesi nel mondo: dal Kenya all’India, dal Brasile alla Namibia, solo per citarne alcuni) [1] e alle esperienze di carattere europeo di reddito minimo garantito (presente in quasi tutti i paesi continentali).
Un dibattito che si arricchisce sempre più anche a fronte della necessità di trovare formule nuove per individuare nuovi strumenti di tutela e redistribuzione della ricchezza anche a fronte della enorme disparità di reddito come denunciata anche da numerosi enti sovranazionali.
L’Italia, come è noto, ha introdotto con un forte ritardo, rispetto ai paesi europei, una misura universale di reddito minimo. Questo è avvenuto malgrado già negli anni ’90, sia con la risoluzione europea 92/441 [2] che con la nota Commissione Onofri in Italia [3], si individuava la necessità di introdurre uno strumento di sostegno economico a fronte anche dell’emergere di nuove povertà a causa dei cambiamenti produttivi.
Seppur con molti limiti, vi sono state alcune esperienze nel nostro paese, come le sperimentazioni di alcune leggi regionali (rea cui la legge del 4/2009 del Lazio, tra le migliori proposte emerse, finanziata per un solo anno dalla giunta Marrazzo), che mostrano l’intenso dibattito che ha interessato tanto i movimenti sociali, le nuove figure del lavoro precario, fino ad arrivare alle proposte di alcune forze politiche. Il dibattito ha attraversato anche il mondo culturale ed accademico, con la presa di posizione forte di giuristi e giuslavoristi, costituzionalisti, sociologi ed economisti. Insomma questo solo per dire che dagli anni’90 dello scorso secolo, in Italia, il tema del diritto a un reddito garantito si è imposto con forza e ragione nel dibattito e nell’agenda politica e sociale del nostro paese.
Proprio le esperienze già esistenti in tema di “reddito minimo garantito” presenti da tempo negli schemi di welfare di molti paesi europei, hanno reso il tema ancora più percorribile dal punto di vista della fattibilità della proposta. La chiave dei “modelli europei” è stata un’ottima mezzo per raccontare questa proposta anche a che guardava al tema con grande scetticismo. Le esperienze dei paesi del nord Europa, cosi come le diverse “indicazioni” delle istituzioni sovranazionali che davano con alcune risoluzioni un preciso ruolo allo strumento del reddito minimo garantito, hanno sicuramente reso “più comprensibile” il tema e hanno segnato la praticabilità di una misura di garanzia del reddito. Le esperienze europee cosi come le indicazioni sovranazionali sono diventate una sorta di “guida” per definire una idea di proposta anche per il nostro paese.
[1] Vedi il dibattito e le proposte segnalate dalla rete mondiale BIEN (Basic Income Earth Network) http://basicincome.org/ e dalla rete europea UBIE (Unconditional Basic Income Europe) http://basicincome-europe.org/ubie/ in cui sono presentati numerosi progetti pilota nel mondo.
[2] 92/441/CEE: Raccomandazione del Consiglio delle Comunità Europee, del 24 giugno 1992, in cui si definiscono i criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale.
[3] I lavori della Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale, più nota come “Commissione Onofri”, si sono conclusi nel 1997 con una proposta di riforma organica dello stato sociale italiano. Sul tema degli ammortizzatori sociali, la Commissione aveva formulato un progetto universalistico di protezione in caso di sospensione temporanea del lavoro e perdita del posto. La proposta includeva l’istituzione di un “reddito minimo vitale”.
Negli anni tra il 2012 ed il 2015 hanno preso corpo nel nostro paese due importantissime campagne, come le campagne, nel 2012 e successivamente nel 2015 per definire proposte possibili.
Nella prima campagna di raccolta firme per “una legge di iniziativa popolare per il reddito minimo garantito” [1], iniziata nel giugno 2012, ben oltre 70 mila firme attraversando per sei mesi l’intero paese, coinvolgendo centinaia di associazioni e realtà sociali che organizzarono oltre 250 iniziative pubbliche. Le firme furono consegnate nelle mani della Presidente della Camera Laura Boldrini, che nell’aprile 2013 incontrò gli stessi proponenti dicendosi non solo a favore della proposta ma che avrebbe fatto sì che l’aula parlamentare la discutesse anche a prescindere dal numero di firme raccolte.
Nella primavera del 2015 prese corpo una nuova campagna sociale, con un’altra raccolta firme (oltre 100mila), definita: “100 giorni per un Reddito di Dignità” [2]. Questa volta non solo si segnalava l’aggravarsi delle condizioni sociali ed economiche per strati ancora più ampi della società italiana a causa anche dei risultati dell’aggravarsi della crisi, ma ancor più si segnalava l’urgenza dell’introduzione di una misura simile.
A partire dall’esperienza di “Miseria Ladra”, parteciparono non solo centinaia di associazioni, enti locali, sindaci, giunte comunali sparse in tutto il paese, ma anche sindacati e movimenti studenteschi. L’iniziativa funzionò anche da termometro delle condizioni di difficoltà economica nel nostro paese che di volta in volta venivano denunciate dai diversi territori e dalle diverse realtà sociali partecipanti.
Se nel 2012 la casualità fu quella di trovarsi nel bel mezzo di una campagna elettorale per le elezioni politiche, nel 2015, la determinazione superò la causalità e puntò subito a coinvolgere le forze politiche chiedendo, o meglio, indicando loro un tempo certo per una misura certa: “100 giorni per una legge!” Fu definita cosi una piattaforma di 10 punti in cui i proponenti esprimevano con chiarezza alcuni concetti di base per definire una legge sul “reddito di dignità” che fosse al passo con i tempi. Una “guida ai principi irrinunciabili” utile per un eventuale articolato di legge da proporre in Parlamento. Si chiese un impegno ad personam ai diversi parlamentari a partire dalla loro firma come sostegno a questa Piattaforma che aveva l’intenzione di “mettere insieme” le diverse proposte in campo [3] così da poter “unire” le forze politiche (e parlamentari) intorno ad un’unica proposta così da poter essere approvata. La richiesta di una “larga intesa” per un diritto al reddito, nel tempo delle larghe intese governative. La proposta ebbe il merito di mettere insieme 35 Senatori e 91 Deputati del M5S; 25 Deputati e 7 Senatori di SEL; 6 Deputati e 2 Senatori del PD; più altri parlamentari) [4] che però, finita la campagna dei 100 giorni, non diedero più alcun seguito alla proposta.
Vi sono state numerosi audizioni alla Commissione Lavoro del Senato, in molte di queste la proposta è riemersa con forza grazie alle associazioni e alle realtà sociali chiamate a rinnovarne le ragioni, ma le scelte governative hanno inteso andare in altre direzioni: come il rifinanziamento alla Social Card o a misure di contrasto alla povertà molto esigue tanto dal punto di vista dei finanziamenti che dal punto di vista dell’efficacia stessa della misura. Come se si saltasse a piè pari tanto il dibattito internazionale, quanto le esperienze presenti in Europa, quanto le criticità da queste espresse, quanto il ritardo dell’introduzione di una misura di sostegno al reddito nel nostro paese vista anche la dimensione sempre più ampia delle povertà classiche e delle nuove povertà.
Alcuni retroscena
Era il gennaio del 2015 quando Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Nunzia Catalfo, il Movimento 5 stelle al gran completo, entrarono nella sede di Libera, a Roma, per incontrare Don Luigi Ciotti e Giuseppe De Marzo, responsabile della campagna Miseria Ladra. Un incontro per cercare una “quadra” su una prima forma reddito minimo garantito, per iniziare a far fare un passo avanti a tutto il paese. Da lì iniziarono una serie di incontri che portarono, come detto, una larga parte del Parlamento a firmare – a tra maggio e giugno – la Piattaforma. Durante la campagna “100 giorni per il reddito” furono molti i comuni, da Asti a Palermo passando per Napoli, a votare delibere di Giunta a favore del reddito. Era qualcosa più di una semplice testimonianza.
Lo scontro Renzi – Rodotà
Il giorno in cui partì la raccolta firme Matteo Renzi, dal palco della festa di Repubblica a Genova, bollò la proposta del reddito di Dignità come «incostituzionale». Non solo. «La cosa meno di sinistra che esista». E ancora: «Confermare il principio che l’Italia è il paese dei furbi». Per fortuna ci pensò Stefano Rodotà in persona e rispondergli portando come arma semplicemente la Costituzione, in particolare l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Dignità. Ed è sullo Stato che grava il diritto al “reddito” e a carico della fiscalità generale il dovere di garantire a tutti un’esistenza dignitosa, in un’ottica redistributiva. Rodotà, tra i primi a sostenere e a farsi promotore degli obiettivi della campagna Miseria Ladra, smontò poi anche la definizione di «provvedimento assistenzialista» data dall’allora premier al reddito di Dignità: «Da sempre i diritti sociali svolgono una duplice funzione. Da un lato di “assistenza e sostegno”, la cosiddetta libertà garantita; dall’altro di “abilitazione” alla partecipazione alla vita sociale. Si chiama libertà attiva». Nonostante ciò, dopo quell’affondo di Renzi, uno a uno tutti i parlamentari “di sinistra” che firmarono la Piattaforma scomparvero. Lasciando così il Movimento 5 stelle da solo, nel deserto politico, ad affrontare la questione. E trasformando così la misura di welfare contenuta nella Piattaforma, nella misura di workfare che oggi è il reddito di cittadinanza.
[1]Si può visitare il sito www.redditogarantito.it oppure il sito www.bin-italia.org in cui è possibile trovare sia l’elenco delle associazioni aderenti, sia le tante iniziative realizzate, sia l’articolato della proposta di legge.
[2]Per maggiori informazioni visitare il sito www.campagnareddito.eu oppure www.bin-italia.org oppure sul sito www.libera.it
[3] Diverse le proposte di legge in discussione alla Commissione Lavoro del Senato, tra cui una a firma Movimento 5 Stelle ed una a firma Sinistra Ecologia Liberà.
[4] http://www.campagnareddito.eu/parlamentari-favorevoli-reddito/#more-62
Lo diciamo in modo molto chiaro: il reddito di cittadinanza è un’altra cosa.
Il provvedimento varato dal governo sul reddito di cittadinanza non abolisce la povertà, come incautamente annunciato al balcone dai ministri del governo; non introduce un vero regime di reddito di cittadinanza come definito dalle risoluzioni europee, dalla CE e da studi e ricerche scientifiche; e non riprende nemmeno la proposta avanzata nel 2013 da centinaia di realtà sociali e sottoscritta anche da 91 deputati e 35 senatori del M5S nella scorsa legislatura.
Il Rdc introdotto dal governo è un’altra cosa rispetto a quello che ovunque nel mondo viene inteso come reddito di cittadinanza o reddito minimo garantito: ne mortifica il senso e ne tradisce le finalità. Per verificarlo basta mettere a confronto le caratteristiche e i principi del cosiddetto Rdc del governo con quelli definiti indispensabili dal Parlamento e dalla Commissione Europea. Ne elenchiamo alcuni:
A questo aggiungiamo un’altra considerazione: si poteva e si doveva finanziare il Rdc attraverso la fiscalità generale e non in deficit. Il governo lo sa bene ma ha preferito dare priorità ad altro, e costruire la narrazione del nemico europeo per dirci che se non avremo il reddito è per colpa dell’Europa che non vuole farci fare un po’ di deficit per il bene degli italiani. Il problema è che a dirlo sono le stesse forze politiche che sostengono politiche di austerità, un fisco regressivo, i tagli alle politiche sociali e ai Comuni: tutte scelte che determinano l’aumento di disuguaglianze e povertà. Questa spregiudicata e cinica incoerenza alimenta una discussione avvelenata e superficiale che ci allontana dai motivi e dalle ragioni per cui è necessario introdurre un nuovo diritto economico.
Vale la pena riaffermare quale sia la finalità dell’istituto del Rdc per rafforzare la consapevolezza dei cittadini e rimettere la discussione con il governo e le forze politiche sui giusti binari. Secondo quanto stabilito dalle Risoluzioni Europee, a partire dal 1992, e dalla CE, attraverso i Pilastri Sociali Europei, il Rdc o rmg serve a garantire la dignità della persona. Il Rdc va considerato per alcuni come uno strumento di valorizzazione e autonomia di scelta, per altri come misura di reinserimento sociale e per altri ancora per attivare forme di promozione dell’occupazione. I regimi di Rdc o rdm sono innanzitutto strumento di libertà. Una libertà che evidentemente ci è stata tolta a causa di una crisi che produce ingiustizie ed esclusione sociale da oltre 10 anni e che ha generato il più grande aumento di disuguaglianze e povertà mai visto dopo la seconda guerra mondiale. Uno strumento, dunque, da intendere anche come necessario a ridistribuire una piccola parte della ricchezza sequestrata dalle élite economiche e finanziare grazie a politiche economiche che continuano a far pagare la crisi a ceti medi e ceti popolari. I numeri lo confermano: la povertà in Italia è triplicata così come sono triplicate le persone miliardarie. Peccato che queste ultime sono 112 e quelle impoverite più di 5 milioni. La gigantesca sproporzione racconta il furto di diritti, speranze e democrazia fatto dalle élite in questi anni, sostenute su ogni provvedimento legato all’austerità, ai tagli al sociale, alle privatizzazioni, ai salvataggi bancari, a una fiscalità regressiva, alle ingiustizie ambientali che producono maggiori disuguaglianze sociali, proprio da quelle stesse forze politiche che oggi dicono di avversarle e strillano “prima gli italiani”.
Sono queste misure che hanno determinato il contesto nel quale il provvedimento del governo si inserisce. Ed è un contesto che non sarà minimamente scalfito dall’introduzione del Rdc. E non solo perché non siamo dinanzi a quella rivoluzione annunciata per aver approvato un sussidio di povertà, non certo un vero Rdc, ma perché il resto delle misure messe in campo allargherà la distanza tra ricchi e poveri, renderà più precario il lavoro, più forte lo sfruttamento e la ricattabilità, intensificherà la guerra tra poveri scatenata scientificamente dalla violenza del linguaggio e delle misure messe in campo proprio da questo governo. Il provvedimento varato dal governo è coerente con la cultura politica manifestata da Lega e M5S: attraverso una misura spot si pone come obiettivo il controllo e il governo dei poveri e la loro occupabilità nei confronti delle imprese. Il governo continua a distrarre l’opinione pubblica dalle cause della crisi, dalle responsabilità delle scelte politiche fatte, dalle alternative possibili in campo, spostando la colpa del peggioramento delle condizioni di vita del paese sugli impoveriti, sui migranti e su presunti nemici internazionali. Un governo forte con i deboli e debole con i forti, continuamente in campagna elettorale alla ricerca di consenso con ogni mezzo (o divisa).
A tutto questo abbiamo il dovere, il diritto e la responsabilità di ribellarci, continuando a organizzarci, rafforzando le nostre alleanze su proposte concrete in grado di sconfiggere disuguaglianze ed esclusione sociale, raccontando la verità anche quando è scomoda. Dobbiamo ricordare innanzitutto a noi stessi che l’unico obbligo previsto dalla Repubblica per noi cittadini è all’art.2, ed è quello alla Solidarietà. Mentre per il governo l’obbligo previsto è all’art3, e consiste nel lavorare per rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza impedendo lo sviluppo e la partecipazione di tutti alla vita del paese. In gioco non c’è una misura di sostegno al reddito, ma il diritto all’esistenza di tutti e tutte.